Tron: Legacy
Alcuni anni dopo aver sconfitto il Master Control, Kevin Flynn è scomparso nel nulla, abbandonando il figlio Sam. Così, mentre la Encom diventava un colosso della programmazione informatica, disattendendo i dettami del suo creatore che sognava un futuro basato sulla condivisione delle scoperte informatiche, Sam ha rifiutato di entrare nel consiglio di amministrazione e si dedica a sottrarre i nuovi sistemi informatici per immetterli nella Rete. Un giorno, però, dall’ufficio di Kevin arriva una chiamata: Sam deve così ripercorrere le impronte paterne e trovare cosa aveva scoperto il genitore prima di sparire. Finisce perciò nell’universo virtuale, governato da Clu, un programma ombra dello stesso Kevin, che ha creato il sistema perfetto e ora sogna di invadere il nostro mondo. Ma per farlo ha bisogno delle conoscenze custodite dal più illustre prigioniero di quel mondo: Kevin Flynn. Padre e figlio saranno dunque uniti nell’ultima missione.
I semi del futuro sono sepolti nel passato
(da Transformers: Beast Machines)
Quando Sam Flynn viene fatto entrare nell’arena del Moto-labirinto, gli viene consegnata un’interfaccia per giocare: lui la impugna come se fosse una spada laser di Star Wars, ma non è quello il modo giusto. Basterebbe questa fugace sequenza per ribadire il legame di discontinuità con le logiche lucasiane che animavano il primo Tron, la voglia che questo sequel ha di rifarsi al modello ma allo stesso tempo di esserne autosufficiente: e anche se nel prosieguo della storia i rimandi alla saga stellare non mancheranno (l’esercito di Clu ricorda quello dei Cloni di Episodio II), questo rapporto è sempre estremamente “aperto” e in odore di conflittualità, allo stesso modo in cui la dicotomia Clu/Flynn è la storia di una lotta interiore fra una concezione dell’informatizzazione come progresso (inteso fordianamente come condivisione del sapere e dei benefici che ne derivano) e una invece autoreferenziale, basata sulla scoperta come potere ed eliminazione progressiva (e disumana) delle imperfezioni.
In questo punto il film gioca la sua carta più precisa, quando cioè riesce a staccarsi davvero dalla logica melièsiana del precursore e fa dell’altrodove virtuale non un universo “altro”, ma una struttura in filigrana di quello degli umani. In effetti i due mondi, più che in passato, appaiono stretti in una danza di perenne e progressivo corteggiamento reciproco: l’universo degli umani vuole penetrare i segreti di quello virtuale e condividerli in nome di una transmatematicità che permetta ai numeri di essere architrave dei benefici del mondo. Un’altra sequenza è in questo senso illuminante: il prologo in cui vediamo le linee grafiche dell’universo virtuale dare forma al nostro mondo reale, in cui agisce il doppio digitale di Jeff Bridges. La dialettica che il film pone in essere fra i due universi è dunque principalmente visiva: rispetto al predecessore, che affogava il mondo di Tron in tinte acide che rimandavano alla cultura psichedelica, stavolta si opta per un tono dark che appare mutuato dai residui del cyberpunk e che lascia spesso intravedere la trasparenza dei muri, degli oggetti, persino dei corpi che vengono attraversati dai dischi nell’arena e si frantumano in un tripudio di pixel.
In ragione di tutto questo Tron: Legacy rinnova e amplifica il piacere dell’esperienza fisica, dell’immersione visiva in un universo meraviglioso, che però stavolta non nasconde l’inquietudine di un mondo che è ormai pienamente dentro gli immaginari creati dalle logiche virtuali e che dunque non guarda più all’altrove come a un’ultima frontiera, ma come a un riflesso del mondo reale. Per questo stavolta la logica non è soltanto quella dell’esplorazione del nuovo universo, ma al contrario quella del ritorno alla realtà. La spinta, insomma, è oppositiva rispetto al modello, non c’è un Master Control da abbattere, ma al contrario un programma-padrone che vuole uscire e fondersi con l’esterno, espandendo le sue logiche oltre i confini del proprio macrocosmo.
La logica del progetto non è più dunque quella dell’antitesi, che resta simboleggiata dai colori delle fazioni antagoniste (arancio per i “cattivi”, azzurro per i “buoni”), ma quella della sintesi, e proprio per questo motivo più della storia in sé (comunque ben congegnata) sono le singole sequenze, o gli elementi unici a contenere i dati e le informazioni più importanti. La sintesi migliore è nei corpi, da quello di Quorra, cui basta un semplice tatuaggio sul braccio per distinguersi in quanto ISO e dunque speranza di salvezza, a quello naturalmente iconico del sempre più straordinario Jeff Bridges. L’attore è fra i pochi oggi a potersi permettere uno stravolgimento totale del proprio personaggio senza nuocere alla mitologia delle saghe in cui si va a collocare: il giovane entusiasta e scavezzacollo del primo Tron diventa qui un individuo riflessivo e rinunciatario, dedito principalmente alla meditazione e riesce a risultare credibile in virtù della profondità mitica che la sua immagine naturalmente rimanda.
Per questo la dicotomia Kevin/Clu racchiude in sé il principio e la fine della storia, le contraddizioni e le scelte che pongono l’uomo di fronte ai bivi della vita e del progresso e la necessità di costruire un percorso basato sulla conoscenza e il rapporto con ciò che è stato (Tron) e ciò che sarà (Sam). Il tutto in uno spettacolo di rara bellezza visiva, potente e lirico grazie anche alle strepitose musiche dei Daft Punk e che rinnova pertanto, ma in modo differente, il piacere del sense of wonder. Imperdibile: un’annata iniziata con Avatar si conclude nel migliore dei mo(n)di.
Tron: Legacy
(id.)
Regia: Joseph Kosinski
Soggetto: Adam Horowitz, Edward Kitsis, Brian Klugman, Lee Sternthal (basato sui personaggi creati da Steven Lisberger e Bonnie MacBird)
Sceneggiatura: Adam Horowitz, Edward Kitsis
Origine: Usa, 2010
Durata: 127’
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