L’umanità sembra aver trovato un nuovo, seppure precario, equilibrio rispetto alla dilagante piaga dei morti viventi e così, su un lembo di terra protetto per due terzi dall’acqua e per il restante versante da una rete elettrificata, una nuova generazione è rifiorita. Sotto la guida dell’avido Kaufman e del suo consiglio di amministrazione, questo nuovo Eden si riconosce nella classe agiata che abita il Fiddler’s Green, un lussuoso grattacielo i cui appartamenti sono bramati dalla gente che vive nei sobborghi e che è tenuta a debita distanza, attraverso un feroce classismo. C’è poi chi svolge il lavoro “sporco”, che consiste nel razziare le città vicine per assicurare alla città i viveri necessari: è il taciturno Riley Dembo, capo di una squadra che si avventura nella zona esterna con il Dead Reckoning, uno speciale mezzo corazzato. Cholo DeMora, il secondo in comando, sogna però di avere una casa nel Green e quando se la vede negare ruba il Dead Reckoning per bombardare la città e Riley viene incaricato di fermarlo. Nel frattempo i morti viventi sembrano agitati da una nuova consapevolezza e, guidati dall’ex benzinaio Big Daddy, iniziano una marcia verso la città.
La differenza maggiore che La terra dei morti viventi dimostra nei confronti dei capitoli precedenti è data principalmente dal suo rivendicare una caratura di genere che confina la metafora a un secondo livello di lettura: sebbene la consapevolezza di Romero sia sempre lampante, la lezione stavolta sembra più vicina agli esempi forniti dal John Carpenter di Vampires e Fantasmi da Marte, artefice di un cinema godibile in prima battuta a livello avventuroso. Nessun dubbio infatti, che si sia di fronte a un film più articolato dei precedenti, con protagonisti tipizzati e indicati attraverso nomi di facile presa (Riley, Cholo, Kaufman, Slack, Charlie e via citando) nell’ambito di un’avventura spettacolare che rende anche la grande quantità di effetti splatter molto più “leggera” e meno percussiva che ne Il giorno degli zombi.
Questo non perché si ripudino le derive avanguardiste dei precedenti film, ma perché la consapevolezza stessa agisce su un doppio registro: quello della critica sociale, sicuramente, attraverso una feroce critica del classismo che guarda direttamente alla spregiudicata disumanità dell’era Bush (evocata attraverso comportamenti e frasi ormai diventati iconici, come la celeberrima “noi non trattiamo con i terroristi”) e che mette alla berlina i simboli del rinnovato potere capitalista (il petrolio, ad esempio, attraverso la figura “di contrappasso” dello zombi benzinaio Big Daddy); ma anche quello della cognizione che Romero stesso ormai palesa nei confronti della tradizione da lui stesso codificata.
La terra dei morti viventi è per questo un film che, seppur lontano dalle tentazioni di sfrenato metacinema in odor di auto-celebrazione tipico della post-modernità, rivendica il suo essere parte di un percorso che è ormai storicizzato, ma ancora in divenire: per questo il passato viene chiamato in causa attraverso precisi segni (la presenza di Tom Savini, che riprende il ruolo sostenuto in Zombi, regala ad esempio l’unico elemento di autentica continuity interno alla saga, mentre Asia Argento rievoca la collaborazione del padre Dario con lo stesso Romero) e vengono rinnovate figure e luoghi dell’immaginario sedimentato (il Green come parafrasi del Mall dell’appena citato Zombi, i morti “consapevoli” come il Bub del 1985), mentre il plot recupera alcune idee dal progetto originale (poi scartato) de Il giorno degli zombi. Allo stesso tempo, però, si cerca una filiazione da modelli più antichi, complice il fatto che i morti viventi romeriani sono ormai un residuo di classicità che affonda nella tradizione più nobile del fantastico. Di qui l’intelligente crasi che il film, complice una fortuita coincidenza produttiva, viene a stabilire con la tradizione della Universal (di cui viene recuperato lo storico logo in bianco e nero) e che è tanto antica quanto moderna (si veda il divertente cameo di Simon Pegg e Edgar Wright, ovvero gli interpreti del bellissimo Shaun of the Dead) e che peraltro rende questo nuovo film come l’unico capitolo mainstream della saga.
All’interno di questo preciso sistema di riferimenti, Romero prosegue la sua ricognizione sull’evoluzione di una società cristallizzata su equilibri estremamente fragili, inquadrati attraverso la prospettiva fornita da un protagonista solitario, che impara a condividere l’avventura con altrettanti outsider, con i quali formerà una nuova microcomunità destinata a fuggire finalmente nel nord del mondo (ovvero il Canada, già meta finale dei superstiti di Zombi).
Ciò che appare realmente innovativo è dunque il tono, che oscilla fra vivaci elementi action e atmosfere generalmente molto più assorte, filtrate da una visualità estremamente elegante e classica (straordinaria nonostante il basso budget), lontana dalle influenze fumettistiche e pop degli esordi: l’inedita presenza di alcune dissolvenze incrociate, anzi, stabilisce il senso di un film basato su un continuo gioco di sovrapposizioni tra umani e morti viventi. Ovvero fra un’umanità seppellitasi scientemente in un paradiso plastificato, che le permette di ignorare i problemi del mondo circostante, e una nuova generazione di zombi senzienti che marciano come rivoluzionari malinconici e regalano addirittura alcuni momenti poetici, ad esempio quando li vediamo osservare meravigliati i fuochi d’artificio (una delle più belle immagini del cinema romeriano). In tutto questo, ciò che risulta volutamente poco chiaro è il ruolo. Se, infatti, gli “appestati” (in originale “stenches”, ma anche “walkers”) attirano la maggiore simpatia dello spettatore, è pur vero che il film continua a riconoscere loro lo status di perenne minaccia, laddove gli umani, pur con le loro sgradevolezze e i contrasti reciproci, restano i “buoni” della situazione.
Non è un caso se l’idea che più viene in mente è quella di una realtà pirandelliana, dove la coazione a ripetere sempre gli stessi gesti (camminare, approvvigionarsi, mangiare, sparare) è interrotta da eventi tanto semplici quanto improvvisi, che lasciano maturare una inedita consapevolezza: come la mancanza di quell’auto alla stazione di servizio che, all’inizio della storia, sembra produrre in Big Daddy quella scintilla di intelligenza utile a metterlo a capo dell’armata di zombi. Il percorso di acquisizione di umanità porterà infine gli “appestati” a re-imparare l’uso di armi e strumenti, in una escalation avvincente, destinata a culminare nella simbolica “rinascita” della splendida sequenza in cui l’armata emergerà, potente e fiera, dalle acque nebbiose di un fiume.
La storia dunque si snoda inseguendo questi singoli microeventi in grado di cambiare la realtà e le convinzioni degli uomini (il destino di Riley cambia grazie alla mancata consegna di un’auto con cui fuggire) e che contestualizzano le continue apparizioni di pericoli e di nuovi snodi narrativi. Chi resta indietro, come Kaufman che nel fuggire si preoccupa unicamente di raccogliere i suoi averi, è inevitabilmente destinato a perdere.
La terra dei morti viventi
(Land of the Dead)
Regia e sceneggiatura: George A. Romero
Origine: Usa, 2005
Durata: 93’
Sito ufficiale
La terra dei morti viventi su Wikipedia
Intervista a George Romero
Interviste al cast: John Leguizamo (in inglese)
Interviste al cast: Robert Joy (in inglese)
Interviste al cast: Asia Argento (in inglese)
Intervista a Greg Nicotero sugli FX (in inglese)
Esplorando la terra dei morti viventi
Tema musicale di La terra dei morti viventi
Il trailer originale di La terra dei morti viventi
2 commenti:
è forte questo film....a volte fa più ridere che paura
Ciao Rodan. Ti ho linkato. Vieni a vedere il mio nuovo template. Apprezzerei un tuo parere circa la sua "giusta" enigmaticità. Un caro saluto :)
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