Grecia. Elion è un immigrato albanese che vuole tornare al suo paese per ricongiungersi alla famiglia. Prima di partire, però, vuole che gli sia restituita quella dignità che gli è stata rubata e perciò sale armato a bordo di un bus e prende in ostaggio tutti i passeggeri. La sua richiesta è perentoria: vuole un milione di euro con i quali fare ritorno in patria e le armi smerciate dal poliziotto che l’ha incastrato. Durante il viaggio emergerà la verità e si svilupperà una forte solidarietà fra i viaggiatori e il loro sfortunato sequestratore.
Ad oggi l’ultimo film di Constantine Giannaris (fattosi notare nel 1999 con Città nuda), Omiros si distingue per l’interessante scelta di innestare un complesso discorso sul senso di appartenenza a una comunità su una struttura di genere che rielabora alcuni stilemi del cinema americano: nel caso specifico quello del gruppo prigioniero di un sequestratore, matrice di tutto il cinema d’azione degli anni Novanta da Die Hard in poi, sebbene la scelta di ambientare tutto il racconto su un bus faccia pensare più che altro al celebre Speed. I paralleli con il bel film di Jan De Bont, però, iniziano e finiscono qui, perché diversi sono i codici espressivi e i temi del racconto, che riesce a evitare l’ossessività performativa attraverso una struttura franta, con ellissi e repentini flashback che svelano la verità in modo progressivo e non lineare. Ne viene fuori un film programmaticamente scritto già nel proprio titolo, ma intenso e capace di respirare di uno slancio emotivo non comune.
Il lavoro sui codici espressivi del cinema d’azione viene restituito da una grande nervosità dello stile visivo, che, dopo un avvio in medias res, racconta quasi tutta la vicenda con camera a spalla e un montaggio molto veloce, capace di dare ritmo alle sequenze più concitate, dove la tensione interna ed esterna al gruppo si fa sentire: Giannaris è bravissimo però nell’iscrivere il tutto sui corpi dei personaggi, a iniziare da quello del protagonista Stathis Papadopoulos: sofferenti, piagati, bagnati dal sudore e capaci anche di esercitare attrazione reciproca, uomini e donne rappresentano tutti insieme il simbolo di una vitalità che scalpita fra le pieghe di un reale altrimenti preordinato in maniera asettica e disumana. D’altronde gli stati d’animo dei singoli sono modulati anche in rapporto all’ambiente, motivo per il quale il bus non diventa soltanto un alveo distaccato dal contesto, ma anche un elemento che interagisce con un esterno che nei colori e nei vari scenari sembra riflettere la bellezza perduta di un mondo dove si agitano personaggi inquieti.
Il senso della storia in fondo è proprio questo: isolare per un intero arco narrativo alcune persone che condividono esperienze in egual misura difficili, per mostrare come esse siano ostaggi non già dell’isolato sequestratore comparso nelle loro vite, ma, al contrario, della vita di tutti i giorni, dove le convenzioni imposte dalla società, dal costume e dalle autorità temporali impongono loro la stasi in una condizione di continua infelicità. L’esterno non è capace di comprendere perché preda della confusione (veicolata dai mass-media, invasivi e caotici) oppure dalla sopraffazione dei più forti sui più deboli, che non lascia scampo e non perdona chi vuole deragliare dal percorso assegnato.
La violenza fisica che vediamo pertanto esercitare (in modo evidentemente ingiusto) su Elion durante i flashback diventa esplicitazione materiale di una pressione psicologica cui tutti i cittadini sono sottoposti, dove eccezioni ed errori vengono durante puniti: il gesto di ribellione che il ragazzo porta avanti permette così ai vari passeggeri di riflettere sulla loro condizione umana.
Questo non fa altro che cementare la bizzarra unione che si è nel frattempo creata fra sequestratore e sequestrati, che diventano perciò l’unica possibile forma di comunità, all’interno di un mondo esterno dove Elion sarà sempre e soltanto un outsider. Qui Giannaris gioca la sua altra carta vincente, quando rovescia la prospettiva innestata dallo stesso Elion, che dipinge la Grecia come luogo di perdizione, che gli ha sottratto dignità e umanità, e l’Albania come una terra promessa che attende il suo ritorno come quello del biblico figliol prodigo.
Così, se la prima parte della storia insiste strumentalmente sulle differenze etniche e di stato sociale, per lasciare che poi l’interazione con Elion (“diverso” perché straniero) abbatta ogni convenzione, nella seconda nuove forme di solidarietà nasceranno e cementeranno il gruppo dando forma a traiettorie emotive in grado di veicolare l’intera vicenda verso la tragedia, quando Elion arriva a comprendere fino in fondo la sua natura di outsider fra due mondi che ugualmente lo rifiutano: qui i colori diventano più saturi e il genere vira verso il melodramma puro assestando i colpi più duri. Come nell’ultimo atto di una rappresentazione teatrale, tutti i personaggi si ritrovano riuniti per assistere alla conclusione degli eventi e i ruoli vengono ancora una volta ribaditi prima di calare il sipario.
Il film si ispira a un fatto realmente accaduto nel Nord della Grecia nel 1999 ed è inedito in Italia: è stato presentato in concorso al Festival del Cinema Europeo di Lecce nel 2006.
Omiros/Hostage
(Omiros)
Regia e sceneggiatura: Constantine Giannaris
Origine: Grecia, 2005
Durata: 100’
(Omiros)
Regia e sceneggiatura: Constantine Giannaris
Origine: Grecia, 2005
Durata: 100’
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