Il maturo e brillante scrittore Charles Saint-Denis intraprende una relazione extra coniugale con la giovane e bellissima Gabrielle Deneige, star emergente della televisione: la ragazza è contesa anche da Paul Gaudens, instabile rampollo di una nota firma imprenditoriale, che cova da tempo un sordo rancore nei confronti di Saint-Denis. Abbandonata da Charles, Gabrielle accetta di sposare Paul, al quale infine rivela le sordide perversioni cui l’amante l’aveva costretta (con il suo benestare) per lungo tempo. La confessione avrà tragiche conseguenze.
Se per alcuni registi si può affermare che la matrice del loro cinema è sicuramente western (pensiamo a Clint Eastwood o John Carpenter), per Claude Chabrol essa sarà inevitabilmente ricondotta sotto il segno del noir. La sua produzione è infatti intesa al disvelamento costante di quella zona d’ombra che agisce sotterraneamente per minare alle fondamenta i rapporti umani, portando alla luce le contraddizioni dell’anima e le spinte distruttive del desiderio. Anche e soprattutto quando tale zona d’ombra non trova corrispettivo nella rappresentazione: è il caso di questo L’innocenza del peccato, dove il regista francese nega asilo su schermo alle perversioni che portano alla deflagrazione finale, relegandole al fuoricampo, e si concentra invece sulle conseguenze che le stesse producono nella vita e nella psiche dei personaggi.
Il film procede dunque per sottrazione di toni, sebbene il ritmo sia incalzante grazie ai dialoghi serrati e la forza espressiva sia assicurata soprattutto da un accurato lavoro sulla fisicità dei personaggi: d’altronde che fulcro dell’intera storia sia il corpo conteso di Gabrielle è evidente già dal titolo originale La fille coupée en deux (“la ragazza tagliata in due”) che sintetizza la collisione di forze contrapposte e le conseguenze che le stesse avranno sul cuore e sull’anima della sventurata. Qui la scelta della splendida Ludivine Sagnier si dimostra una carta vincente: viso delicato su un fisico prorompente (sebbene mai mostrato apertamente, in ossequio alla poetica autoriale del regista, basata su una messinscena di impeccabile rigore formale), Gabrielle è un corpo che evoca il peccato, in evidente ossimoro con la sua natura di “angelo” (come la chiama Charles) rappresentata dal suo disarmante sorriso, lo stesso che la rende un volto molto amato del piccolo schermo.
Il discorso viene portato avanti attraverso un calibratissimo lavoro di esplorazione dei confini tra realtà e sua rappresentazione. Il continuo rinfacciare la natura pubblica dei personaggi, ad esempio è propedeutico alla loro raffigurazione in quanto elementi di uno schema dove nessuno è se stesso, ma ciascuno recita una parte: Charles è quindi una figura che vive raccontando vite altrui e subissando chiunque conosca di citazioni, al punto da apparire una persona priva di una sua identità. Lo stesso vale per Paul, plasmato da una madre-padrona che lo ha reso un personaggio nevrotico e abituato “ad avere ciò che vuole”. In tutto questo l’unico personaggio davvero reale è l’icona mediatica Gabrielle, contesa come corpo, ma che dimostra un’anima capace d’amare realmente e di soffrire per gli sbagli commessi. Il suo personaggio sintetizza, rovesciandola però di segno, il tema dell’ossessione amorosa femminile già affrontato mirabilmente da Chabrol nel precedente La damigella d’onore. Ma stavolta non c’è reale colpa in lei se non quella di eccesso d’amore: non è un caso infatti che l’unico momento in cui la si veda sottoposta alle umiliazioni volute da Charles sia trattato da Chabrol in modo burlesco e giocoso, come a ribadire l’innocenza del titolo commessa da questo bellissimo personaggio, allo stesso tempo fragile e volitivo, capace di ispirare tenerezza e desiderio.
La natura pubblica dei personaggi si accompagna poi a una serie di momenti topici che evidenziano l’importanza del mettere in scena le azioni: le trasmissioni televisive di Gabrielle, l’intervista di Charles, fino al colpo di scena che vede coinvolto Paul - e che non a caso si svolge durante una serata di gala, su un palco e davanti a un microfono - sono espressione di una necessità di esposizione del rimosso davanti al reale. Ne consegue che anche i momenti d’ombra sembrano caratterizzati dalla stessa tensione: il costume indossato da Gabrielle durante i suoi giochi erotici, così come il suo inerpicarsi sulla scalinata hanno il sapore di una rappresentazione e di una autentica entrata in scena.
Il tutto viene sintetizzato mirabilmente nel finale, dove diventa a questo punto necessario rimettere in scena per l’ultima volta tutto il racconto portandolo alle estreme conseguenze, per garantire, sempre sul palco, la possibilità di redenzione e rinascita alla protagonista: ecco dunque che, attraverso l’espediente metaforico del numero illusionistico, il corpo di Gabrielle viene sottoposto a un catartico taglio fino a una rinascita accompagnata da effetti visivi di natura squisitamente melièsiana (origine e sintesi del cinema). E’ come se l’intero film anelasse a questo finale, lo evocasse e ne costruisse i presupposti per concedere alla giovane vittima (che pure era stata consenziente in nome dell’amore provato per il satiro) una possibilità di espiazione.
In questo senso è evidente come Chabrol riponga grande fiducia nelle possibilità catartiche del cinema, che servono proprio a strappare la zona d’ombra dai suoi nascondigli per portarla alla ribalta di un proscenio che è quello della vita. E’ un cinema profondamente morale il suo, ma non moralista, grazie alla lucidità e al rigore di chi ha compreso le armi a sua disposizione e le ha indirizzate in forma di una creazione di stile, nonché di riflessione sulla natura stessa del racconto per immagini.
La vicenda si ispira alla reale uccisione dell’architetto Stanford White, avvenuta a New York nel 1906, già al centro del film Ragtime di Milos Forman.
L’innocenza del peccato
(La fille coupée en deux)
Regia: Claude Chabrol
Sceneggiatura:
Origine: Francia 2007
Durata: 115’
Sito ufficiale francese
Claude Chabrol sulla sua carriera (1/2)
Claude Chabrol sulla sua carriera (2/2)
1 commento:
Di Chabrol per ora ho visto solo A doppia mandata e devo dire che mi è piaciuto moltissimo. Anche lì la componente noir ha un certo peso.
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