Come ho scritto più volte l’obiettivo di questo blog è dare visibilità al bello che ci circonda, senza abbandonarsi alla facile trappola della nostalgia (che spesso si trasforma in apologia acritica del tempo andato): sebbene non siano mancati (né continueranno a farlo) approfondimenti su opere del passato, l’obiettivo primario sarebbe quello di stare sul presente, convinto come sono che ancora molto di buono venga prodotto in vari settori dell’arte e dell’industria dell’audiovisivo. E che il celeberrimo motto “si stava meglio quando si stava peggio” sia meglio lasciarlo alla convinzione di chi magari a trent’anni ragiona già come se ne avesse settanta (autentico male di parte della mia generazione).
A completamento del percorso che ho intrapreso da poco più di un anno, però, mi rendo conto sempre più della mancanza di un tassello: scorro la colonna delle etichette e non riesco a non notare la sua mancanza. Non c’è la TV. Manca uno spazio dedicato all’approfondimento sui buoni programmi televisivi. Non i Telefilm, che hanno invece il loro angolo e che attualmente vivono un periodo aureo (anzi, casomai dovrei scrivere molto di più sull’argomento). No, intendo proprio i generi del mezzo televisivo: i varietà, i quiz, i programmi d’approfondimento culturale, i talk show…
Finora ho evitato di affrontare l’argomento per non esplicitare qualcosa che porto dentro di me come un informe impasto d’emozioni e di timori, che quindi cerco di evitare, come quando incontri una persona che non ti è gradita e sei indeciso se affrontarla o cambiare strada. E come in quel caso alla fine è meglio andare al nocciolo della questione rompendo ogni indugio: la TV italiana, intesa ovviamente come il sistema televisivo che trasmette in chiaro nel nostro paese, offre un livello qualitativo vergognoso. Restituisce l’idea di un mondo povero e incapace di veicolare un autentico immaginario: o meglio (ed è la cosa senza dubbio peggiore), veicola l’idea che si possa formare un immaginario dalla sottrazione dello stesso. Metti insieme dieci persone a non far nulla in uno spazio chiuso (che sia una casa o una fattoria o un’isola) e hai creato il trend del momento. Che si possa fingere il confronto mettendo in scena la mancanza di dialogo, con urla e strepiti, ma soprattutto delegittimando ogni opinione critica.
Si obietterà: questa è la superficie, scavando qualcosa si trova. Certamente, ma resto dell’opinione che mentre il cinema rechi con sé una condizione congenita per cui la ricerca del titolo più raro è parte integrante della sua forza, per la televisione valga il contrario: la qualità non può essere disgiunta dalla visibilità del prodotto. E quindi un programma trasmesso in un orario improponibile è di per sé un programma castrato e la ricerca affannosa, lo scavo, costituisce un deficit per il bello che si vuole andare a vedere. Il problema, insomma, è sistemico e come tale resta.
Quindi in questo caso avrei dovuto attuare una prospettiva opposta: privilegiare il passato, sia per i meriti qualitatativi di molti programmi “di ieri”, sia per comprendere la deriva catastrofica del presente. Magra prospettiva.
Ci pensavo continuamente fino a quando, in pochi giorni, due programmi di prima serata mi hanno colpito, poiché sembravano essere lì, sullo schermo, proprio per rispondere ai miei dubbi e ai miei timori. Il primo è stato Report, format ormai consolidato e virtuoso, con la trasmissione sul sistema radiotelevisivo, andata in onda domenica 22 marzo (potete vederla in streaming su YouTube al link in calce a questo pezzo). Giornalismo efficace, schietto, ma soprattutto lucido nel rimettere ordine all’interno di una questione nebulosa dove emergono le mancanze della nostra inetta classe politica, lungo gli ultimi trent’anni. Un’operazione di pulizia del pensiero, addirittura, per come riesce a stabilire come i guai del presente nascano nel passato e in comportamenti lottizzatori e clientelari consolidati.
La seconda visione è stata la puntata speciale di Che tempo che fa dedicata a Roberto Saviano di ieri, mercoledì 25 marzo. La trasmissione di Fabio Fazio, sebbene non priva di alcuni difetti strutturali (a iniziare dallo stesso conduttore, spesso non all’altezza del suo compito), è un interessante format che ha saputo rielaborare il classico potere aggregante delle “previsioni del tempo” per diventare a sua volta spazio dove misurare la “temperatura” della società attraverso interessanti e costruttivi confronti con ospiti di rilievo. Con garbo e misura. La puntata in questione però si è discostata alquanto dal classico schema della trasmissione stessa (e quando invece non lo ha fatto ha accusato delle brusche cadute, come nell’inutile siparietto cabarettistico concesso sul finale ad Antonio Albanese) per concretizzarsi in due parti con un lungo monologo di Saviano e un incontro fra lo stesso e i colleghi Paul Auster e David Grossman.
Ora, Roberto Saviano è uno di quei personaggi che fanno discutere, nel bene e nel male (vi consiglio di non perdere l’interessante riflessione di Liberblog presente fra i link). Personalmente non ho – ancora – letto Gomorra e quindi non posso pronunciarmi in merito: il punto comunque è un altro. Con il suo monologo e l’incontro con i colleghi, Saviano ha compiuto un’operazione di “pulizia del pensiero” pari se non superiore a quella di Report, perché è partito dagli strumenti basilari della comunicazione massmediatica: le parole. Analizzando i titoli dei quotidiani locali ha posto lo spettatore nella condizione di capire il modo distorto con cui il messaggio mafioso viene veicolato al pubblico. Dove i valori sono rovesciati, i boss “soffrono” e si preoccupano del territorio, le vittime delle stragi sono “giustiziate” e chi collabora con la giustizia è un “infame”. Le parole, dopotutto, hanno un peso. Accompagnato da un ricco apparato iconografico, lo scrittore ha illustrato vicende che rivelavano in profondità i meccanismi del potere e del pensiero camorristico, insieme alla sua impronta sulla società. Il tutto con la dichiarata intenzione di elevare il fatto di cronaca locale a descrizione di un costume che utilizza dinamiche universali e che per questo rende necessaria la conoscenza degli eventi e la comprensione del loro senso.
Soprattutto, però, Saviano ha dimostrato come spesso quelle parole siano utilizzate in direzione opposta al Bene comune, per delegittimare anzi i punti di vista originali e critici sulla realtà, in modo da annacquare il sentire sociale e far cadere tutto nell’anonimo pastone dell’indifferenza, dove sono “tutti uguali” e in lotta per il proprio tornaconto e quindi anche chi combatte la malavita si vede improvvisamente diventare connivente, pur non essendolo affatto. Praticamente in un’oretta di trasmissione Saviano ha portato all’evidenza di tutti il cancro della televisione stessa, è come se avesse dato forma a quell’agire sbagliato che ha strozzato generi e linguaggi in nome del “popolare”, del “tutto uguale”, dove si decide al vertice ciò che interessa e ciò che invece è inutile. Mi ha fatto pensare alla lucidità dolente del cinema di George Romero e non è poco.
Pertanto oggi penso che forse del buono c’è ancora in questo sistema televisivo. E’ solo un segnale, ma magari possiamo partire da qui.
Video Report 22/3/09: Modulazione di frequenze (1/2)
Video Report 22/3/09: Modulazione di frequenze (2/2)
Testo Report 22/3/09: Modulazione di frequenze
Sito di Report
Video sintesi Roberto Saviano a Che tempo che fa 25/3/09 (1/2)
Video sintesi Roberto Saviano a Che tempo che fa 25/43/09 (2/2)
Saviano a Che tempo che fa: la paura e il potere delle parole
Saviano a Che tempo che fa: riflessioni sparse
Adnkronos: Saviano a Che tempo che fa
La Repubblica: Saviano a Che tempo che fa
Liberblog: Il caso Saviano
Che tempo che fa blog
2 commenti:
Probabilmente il mio commento esula dall'argomento tv, ma ho appena letto il post su Liberblog da te segnalato, anch'esso molto interessante. Purtroppo non ho visto le puntate in questione, e devo confessare di non essere molto interessato alla vicenda Saviano. Come nel tuo caso, alcune delle riflessioni nel post di Tasso mi erano balenate in mente in merito al film (non ho letto il libro). Sull'efficacia emancipatrice dei due fenomeni cinematografici dello scorso anno -- comodamente (e, a volte, scomodamente) presi per opere critiche oltre l'evidenza attestabile -- ho molti dubbi, dato l'atavico carattere italico. Fermo restando il fatto che nel film di Garrone -- che pure si è fatto appropriare da una certa deificazione di ritorno -- trovo una purezza estetica (e quasi naturalmente, di conseguenza, ideologica) difficilmente negabile. Il mio problema è che, forse per fortuna, della situazione campana non so nulla, in realtà: ho solo pregiudizi abbastanza popolani su quello stato di cose. E, per di più, tendo anche per questo ad essere molto pessimista, ed anche un po' menefreghista: l'impressione dall'esterno è quella di un campo minato, piuttosto letterale, nel quale è desiderabile non metter piede. Probabilmente -- e lo dico a rischio di inimicarmi qualcuno -- Napoli è l'unica grande città italiana nella quale avrei seri problemi a recarmi. Finora nulla mia ha mai fatto cambiare idea, e nella mia vita ho cambiato idea su molte cose.
Sì, in realtà la mia riflessione era più incentrata sulla comunicazione televisiva in senso stretto, la vicenda personale ed editoriale di Saviano mi è servita un po' da pretesto e quindi non sono entrato particolarmente nel merito (peraltro il film "Gomorra" non mi ha convinto appieno, ma magari avremo modo di discuterne altrove).
Napoli comunque è una città bellissima, spesso vittima della brutta propaganda che restituisce, per l'appunto, l'immagine di un luogo in cui "è desiderabile non metter piede": mi è capitato di visitarla più di una volta negli ultimi due anni e ne sono rimasto folgorato. Ti consiglio prima o poi di andarci, vedrai che molti pregiudizi saranno facilmente rovesciati.
In fondo, anche in questo caso, è solo un problema di cattiva comunicazione.
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