Randy “The Ram” Robinson è un lottatore professionista che, vent’anni dopo i fasti del suo incontro con lo storico rivale “L’Ayatollah”, è ormai ridotto ai margini dell’industria del Wrestling e sbarca il lunario fra lavori part-time e incontri di bassa levatura. Nel tempo libero frequenta uno strip-bar dove lavora Cassidy, una matura ma ancora affascinante spogliarellista che però non vuole intrecciare relazioni serie con i clienti. Un giorno, dopo aver sostenuto l’ennesimo incontro, Randy crolla nello spogliatoio per un infarto: il verdetto dei medici è implacabile, la sua carriera è finita, il fisico non è più in grado di reggere l’abuso di violenza e farmaci dopanti, e la possibilità di sostenere un incontro speciale che celebri il ventennale della sconfitta dell’Ayatollah, ottima possibilità per riguadagnare la ribalta, è destinata a sfumare. Il reinserimento nel mondo non è però facile e così, su consiglio di Cassidy, Randy prova a ricominciare ricucendo i rapporti con la figlia Stephanie. Inizialmente sembra andare bene, ma anni di incomprensioni ed errori non si cancellano in un colpo.
Meritato Leone d’Oro alla Mostra di Venezia 2008, The Wrestler è il film che officia definitivamente il funerale di un’epoca (gli anni Ottanta durante i quali Aronofsky – e molti di noi con lui – è cresciuto), e di un immaginario attraverso il corpo iconico di Mickey Rourke, il cui percorso umano e artistico si intreccia inevitabilmente con quello del suo personaggio accrescendo la potenza lirica del racconto. Attore gigantesco, Rourke si dona al film con potenza e grazia, passando in rassegna una serie di momenti che spaziano dall’ironico al tragico, donando al “suo” Randy una umanità sorprendente, che dribbla immediatamente qualsiasi possibile accusa di malizia da parte della pellicola e del regista. Randy “The Ram” Robinson cade, si ferisce, esibisce la sua carne martoriata e il viso rigonfio dai pugni, patisce ogni sofferenza in nome di uno spettacolo preordinato (come da regole del wrestling) e soffre nel privato per gli affetti negati e le relazioni che non riesce a costruire: la sua parabola è potenzialmente cristologia, ma il sottotesto viene esplicitato, e quindi scardinato, quando la sua amica Cassidy chiama in causa un paragone con il film La passione di Cristo. Il dialogo ha una connotazione quasi grottesca per il modo in cui la ragazza banalizza il martirio definendolo con divertita enfasi “due ore di torture”, evidenziandone quindi la forma eminentemente spettacolare. In tutto questo è racchiusa una perfetta chiave di lettura del film, nel quale Aronofsky sancisce la natura mass-mediale di Randy Robinson, il suo avere senso soltanto in quanto icona spettacolare che accontenta le masse anche nella fase terminale della sua carriera, per quanto ormai inerte sia la gloria (splendida a questo proposito la scena in cui l’atleta viene riunito ad altre glorie decadute del wrestling per firmare autografi).
Pertanto il percorso umano di Randy (che, si badi, pretende di essere chiamato con questo che non è il suo nome vero, riconoscendosi sempre e comunque in quanto personaggio e non persona) altro non è che una presa di coscienza, attraverso l’immersione nel mondo esterno al ring, della propria condizione di inadeguatezza, della sua incapacità di costruire altro che non sia uno spettacolo (come si nota nella divertente sequenza in cui il nostro serve al bancone del supermarket inscenando una serie di gag). Varcare una soglia per lui significa sempre entrare in scena anche quando la condizione non è più quella del protagonista, ma del subalterno.
Randy esiste davvero solo sul ring e quindi deve sacrificare e mettere in scena la propria morte ancora una volta sul quadrato, in un rito privato che diviene collettivo quando tutti gli spettatori sono chiamati a partecipare. Per questo la morte di Randy è la morte di un modo di pensare il mondo e di un immaginario che si rivela ormai anacronistico, fatto di heavy metal pesante che esce dall’autoradio, di un universo muscolare e pittoresco, che nella sua finzione pure conserva una certa innocenza. Aronofsky lo celebra con rispetto, ma stabilisce anche come il definire la realtà attraverso i simboli del passato sia ormai un’attività decadente di fronte a un presente che è ormai completamente diverso.
L’autore è comunque bravissimo nel farsi da parte, rinunciando alle sperimentazioni visive e narrative dei precedenti lavori per un approccio brutale e documentaristico alla materia, con camera a spalla, pedinando il personaggio spesso ripreso di spalle, e permettendo al film di costruirsi letteralmente sulle spalle di Rourke. E nel finale riesce a mantenere un mirabile equilibrio tra il rispetto affettuoso per il suo personaggio (al punto che l’emozione è palpabile e suscita una profonda commozione) e una vibrante amarezza, amplificata dalle splendide note di un grandissimo Bruce Springsteen.
The Wrestler
(id.)
Regia: Darren Aronofsky
Sceneggiatura: Robert D. Siegel
Origine: Usa, 2008
Durata: 105’
Intervista a Mickey Rourke, Darren Aronofsky e Rachel Evan Wood
Sito italiano
Sito ufficiale americano
Sito promozionale americano
Trailer italiano dal canale YouTube Lucky Red
Ritratto di Mickey Rourke
Fansite su Mickey Rourke (in inglese)
Blog di Darren Aronofsky
2 commenti:
Me lo aspetto appunto commovente. Per Rourke (poi adoro la Wood), e per la curiosità di vedere un Aronofsky così diverso.
Non vedo l'ora di poterlo vedere in sala.
Posta un commento