Per i casi di cui è costellata la vita, la recente tornata elettorale si è intrecciata con la personale riscoperta di due opere che hanno sintetizzato e analizzato molto bene il tutto: la visione di un film, Un eroe borghese, di Michele Placido, e il ricordo di questa bella canzone di Giorgio Gaber, realizzata nel 2001 e inclusa nell’album “La mia generazione ha perso”, a sua volta tratto dall’omonimo spettacolo teatrale scritto dallo stesso Gaber in collaborazione con il pittore Sandro Luporini.
Un brano ironico e dissacrante, che tenta una divertita analisi sul valore delle definizioni in un mondo afflitto da cronica partigianeria e che per questo non è capace di focalizzare l’attenzione sulla realtà, preferendo astrarsi in categorizzazioni abbastanza fini a se stesse. Il che spiana inevitabilmente la strada al qualunquismo e alla decontestualizzazione delle cose, creando il vuoto culturale che affligge la società odierna. Perché ciò che interessa a Gaber non è l’appianamento degli opposti, è l’esaltazione delle parole in quanto concetti capaci di veicolare senso.
Di persone come lui, in questi anni, si sente sempre più il bisogno.
Pagina di Wikipedia su Giorgio Gaber
Intervista a Giorgio Gaber
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