"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

martedì 8 aprile 2008

Lady in the Water

Cleveland Heep è il custode del centro residenziale “The Cove”, abitato da gente di ogni tipo: una notte, dalla piscina comune emerge Story, bellissima e indifesa: è una narf, ovvero una ninfa del Mondo Azzurro, giunta per trovare l’uomo che produrrà un grande cambiamento nella società. La sua missione però è ostacolata dallo Scrunt, un mostro che vive mimetizzato nell’erba del giardino è che è disposto a tutto pur di impedire che la ragazza venga recuperata dalla Grande Eatlon, l’aquila destinata a riportarla a casa una volta che tutto sarà compiuto. Cleveland deve quindi imparare a credere, indagare nei segreti nascosti in una antica fiaba della buonanotte e recuperare tutte le persone in grado di aiutare Story. Una missione che è anche un viaggio nella sua coscienza, avendo egli perduto ogni fiducia in se stesso dopo la morte dei familiari.

Il cinema come una questione di fede: è quanto M. Night Shyamalan continua a portare avanti da alcuni anni, rinnovando la possibilità di un procedimento artistico che sia anche un ottimistico invito a credere nelle possibilità di cambiare il mondo. Un cinema per questo potente e lirico, in grado di toccare le corde più profonde dell’essere umano elevando il senso della meraviglia a un livello di consapevolezza dimenticato da molti colleghi hollywoodiani dell’ultima ora. E per questo anche un cinema che pare provenire da una piega del tempo, più vicino all’elogio dell’innocenza tipico di uno Steven Spielberg di quanto non lo sia alle moderne – e ciniche – strategie commerciali dell’industria audiovisiva. Anche quando il film non si possa definire apertamente un capolavoro.

Alla luce di tutto questo una pellicola come Lady in the Water risalta come la più particolare nell’ancor breve filmografia del regista indo-americano: la sceneggiatura, rifiutata dalla Disney a causa della sua “stranezza”, è stata avallata con coraggio dalla Warner Bros, che ha creduto in una fiaba moderna che attinge tanto dal repertorio del racconto orale quanto dal fantasy come genere e matrice dei giochi di ruolo (aspetto reso evidente dalle varie figure archetipiche come il Guaritore o il Tramite che porteranno la vicenda alla sua conclusione). Shyamalan ha confessato che l’idea proviene da una fiaba che lui stesso aveva inventato per le figlie e che aveva assunto nella sua casa un’aura mitica, tanto da pretendere infine una trasposizione cinematografica: è l’emblema perfetto di un cinema che sente l’urgenza primaria di esprimersi, una metafora lampante di un bisogno di storie e racconti in grado di parlarci dell’epoca attuale attraverso la trasfigurazione nel Mito e nei linguaggi di genere.

In effetti è abbastanza palese come la vicenda costituisca anche una riflessione metacritica sul potere della parola, sull’effetto dirompente della narrazione e sull’affabulazione come elemento necessario in un mondo inaridito e che ha bisogno di tornare a credere. Ma diversamente dal già citato Spielberg, Shyamalan non conduce per mano il suo spettatore: il film infatti non possiede il respiro universale di E.T. (pur raggiungendone la potenza emotiva), a tratti è grottesco, sopra le righe, ostico. Alcuni passaggi risultano fuori luogo e presuntuosi, è un’opera che chiede a chi la guarda di dimenticare le proprie sovrastrutture mentali e accettare le sue regole. E’ un’opera, insomma, cui bisogna credere.

La storia è quindi in bilico fra un aspetto visivo che tenta di ispirare il senso del meraviglioso tipico della fiaba (valorizzato in questo anche dalle poetiche musiche di James Newton Howard) e una struttura narrativa che procede nel senso quasi della detection, attraverso una ricomposizione dell’intricato mosaico che conduce naturalmente alla scoperta di come tutto sia già davanti ai nostri occhi: ciò che manca a ogni persona è infatti la capacità di collegarlo, di modificare la prospettiva adeguando il proprio sguardo a una realtà che sembra dominata dal Caos, ma è invece comprensiva di tutti gli elementi in grado di salvarci. Ma questa decodificazione non deve avvenire con la presunzione di chi pretende in anticipo di capire l’esito della sfida (esemplare in questo caso la figura del critico, nonostante il modo un po’ macchiettistico con cui l’uomo è raffigurato sia da ascrivere agli elementi deboli del film); deve anzi essere condotta nel segno dell’universalità, della fiducia e dell’amore verso il prossimo, perché l’errore è in agguato e la posta in gioco è troppo alta per fallire.

Per questo Cleveland deve imparare a capire i suoi sentimenti, a credere in qualcosa che vada al di là della fiaba e che diventa invece una consapevolezza del proprio e dell’altrui valore: deve perciò abbandonare le sue incertezze e i demoni interiori, dando infine forma compiuta a una trama che vede ogni elemento e ogni persona profondamente collegata. E’ la massima spielberghiana del “chiunque salva una vita salva il mondo intero” che si dipana sotto i nostri occhi e questa salvezza comprende tanto chi conduce il gioco (la stessa Story scoprirà il suo valore nel portare a termine la missione, dopo essere stata considerata sempre una creatura goffa e di poca importanza dalla sua gente) quanto chi è portato avanti dallo stesso. E’ un messaggio di speranza, che valorizza il ruolo degli ultimi, non calpesta le umane debolezze (“Non c’è nulla di male ad aver paura” spiega lo stesso Cleveland a Story), ma le valorizza, facendo delle stesse un elemento del ricco mosaico caro alla vicenda.

Lo scenario in cui tutto si svolge è quindi solo apparentemente sconnesso, frammentario e cupo. E' invece materia magmatica di un cinema elementale, fatto di aria, acqua, terra e sentimenti primari come la paura e l'amore, dove anche i dettagli hanno una grande importanza. Ad esempio a volte sullo sfondo dell’inquadratura appaiono delle televisioni accese, oggetti apparentemente quasi trascurabili, ma in realtà significativi poiché dimostrano come ogni filmato racconti una realtà di conflitti e odio, vomitati costantemente in faccia a ogni telespettatore. E’ il contesto che circonda il condominio, il mondo "di fuori" che alimenta il disprezzo per l’altro da sé, induce a creare barricate in una società sempre più multietnica e si riflette nella realtà "di dentro", dove i vari condomini del Cove, eterogenei e divisi tra loro, vivono rannicchiati nel proprio particolare e sono diffidenti verso chiunque. Ancora una metafora, dunque, ancora un ostacolo da superare. Chi riuscirà a farlo rimarrà colpito ed emozionato da questa fiaba dolce e magica, che ha voluto giungere fino a noi come inno all’esserci tutti insieme su questo mondo. E rimarrà incantato dallo sguardo innocente e puro di uno straordinario parterre di attori, dove svettano ovviamente i due protagonisti, un tenero Paul Giamatti a una eterea e bellissima Bryce Dallas Howard.

Lady in the Water
(id.)

Regia e sceneggiatura: M. Night Shyamalan
Origine: Usa, 2006
Durata: 102’

Sito ufficiale italiano
Sito ufficiale americano

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