Fattosi notare nel 1994 con Little Odessa, cui ha fatto seguito nel 2000 The Yards, James Gray si è costruito nel tempo una buona reputazione, destinata a essere rafforzata da quest’opera terza, un poliziesco che riecheggia i dolenti noir di Martin Scorsese o gli inquieti scenari metropolitani cari a William Friedkin. Un film ambientato negli anni Ottanta e incentrato su un canovaccio classico e archetipi ben definiti, ma capace di non risultare ugualmente derivativo o banale. Ciò che a Gray sembra interessare non è infatti l’innovazione, né (come si potrebbe facilmente pensare) la semplice glorificazione di stampo conservatrice della classica diade Dio-famiglia. Accanto alla tradizionale storia di due fratelli divisi dal destino, che apre la porta a un racconto di vendetta e riconciliazione, si evidenzia infatti un discorso più complesso sul senso di appartenenza a un gruppo che preclude a scelte difficili. Bobby è un personaggio che ha abbandonato la famiglia e ha trovato un nuovo nucleo ad accoglierlo, guidato dal patriarca russo Marat, che gli ha affidato un locale e progetta di fare di lui uno dei suoi uomini di fiducia una volta che gli affari si saranno ampliati. Forte dell’intraprendenza tipica dei suoi giovani anni, Bobby ci appare non già come il classico figlioccio rampante che non esita a calpestare i propri ideali per il successo, ma come un convinto assertore della possibilità di sfuggire ai legami di sangue e di razza per rifarsi una vita: alla famiglia patriarcale di Bert, tradizionale, bianca e devota a Dio, si oppone un modello apparentemente più “libero”, che permette a un bianco come Bobby di essere accolto come un figlio insieme alla sua fidanzata portoricana Amada.
La scoperta del fragile equilibrio che nasconde soltanto l’interesse del denaro spinge Bobby a tornare sui suoi passi per riconciliarsi con il fratello Joseph e il padre Bert, in un percorso che ha allo stesso tempo il sapore di un ritrovare il proprio posto in una realtà fino a poco prima considerata aliena (a un certo punto Joseph considera strano vedere il fratello nel suo ufficio con incarichi da poliziotto) e il modificare gli equilibri interni alla comunità stessa. In questo senso è interessante notare come il cambio di fronte di Bobby coincida innanzitutto con una nuova prospettiva nella quale viene fatto apparire Marat: da patriarca placido e amorevole con i nipoti a subdolo calcolatore che imbastisce i suoi loschi traffici attraverso una insospettabile rete di collaboratori che investe i familiari più prossimi. Contestualmente anche i rapporti di forza fra Bobby e Joseph mutano: inizialmente il primo è il debole della situazione, mentre il secondo è il decisionista, che non si lascia intimorire dai nemici, ma nel prosieguo della storia questa apparenza è destinata a essere rovesciata da un finale che vede Bobby nel ruolo di chi agisce e non si lascia paralizzare dalle incertezze, al contrario dello stesso Joseph.
Il punto di equilibrio fra le varie forze in campo è quindi dato dal rapporto con Amada, che sembra inizialmente resistere agli scossoni del caso: la ragazza, infatti, non è la classica “pupa” del giovane boss, ma una compagna sincera che ragiona in termini di coppia e resta accanto al suo uomo nelle difficoltà, attraversa con lui anche i momenti più drammatici che mettono a rischio la sua vita, salvo poi ritrarsi non quando il carico di responsabilità diventa troppo grande, ma quando appare evidente che è lo stesso Joseph a non considerare il legame con lei come una realtà, nascondendole le sue decisioni. Il momento, che coincide con l’arruolamento in polizia, è sottolineato magnificamente dalla intensa scena in cui Bobby non legge il messaggio lasciatogli da Amada, ma lo abbandona sul tavolo uscendo poi silenziosamente dall’inquadratura per spostarsi in un’altra stanza. La scelta in quel momento è compiuta.
Ecco, una delle capacità dimostrate dalla regia di Gray, che non ha la maestosa eleganza di uno Scorsese o la perizia tecnica di Friedkin, è comunque la sua capacità di elaborare i sentimenti dei personaggi attraverso un lavoro sulla messinscena raffinato e di grande impatto: i movimenti degli attori sono seguiti ed enfatizzati con cura attraverso piccoli dettagli e scelte di campo molto precise. Memorabile a questo proposito l’inseguimento sotto la pioggia ripreso quasi totalmente dall’interno dell’abitacolo.
In questo senso anche il finale è tanto semplice quanto lineare nell’aprire una crepa nello status quo apparentemente ripristinato: per un fratello che gli dichiara il suo affetto, Bobby sconta la mancanza di Amada, volto forse intravisto (desiderato?) fuggevolmente tra la folla. La scelta di campo non è rimasta senza conseguenze, e la perdita di una compagna è certamente la più marcata.
(We Own the Night)
Regia e sceneggiatura: James Gray
Origine: Usa, 2007
Durata: 105’
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