Il Distretto di polizia di Anderson, in una delle più isolate zone di Los Angeles, sta per essere trasferito in un’altra area cittadina e a supervisionare le operazioni dell’ultima giornata viene inviato il tenente Ethan Bishop, fresco di nomina. Sul luogo arriva un bus con tre carcerati in corso di trasferimento per verificare lo stato di salute di uno di loro. Fra i tre peraltro si distingue Napoleon Wilson, condannato a morte per omicidio. Successivamente fa la sua comparsa anche un uomo in evidente stato di shock, che ha vendicato la morte della sua bambina uccidendo un membro della gang Street Thunder, che ora ha giurato rappresaglia. Il distretto diventa così il teatro di una battaglia che vede poliziotti e carcerati uniti in una strenua difesa.
Distretto 13 è uno di quei film destinati suo malgrado a un’eterna (e doverosa) riscoperta: oggi è, a ragione, acclamato come un capolavoro dopo le critiche suscitate alla sua uscita per l’eccessiva violenza, soprattutto in virtù dell’omicidio ai danni di una inerme bambina con il gelato. Una scena agghiacciante, brutale nel suo essere così secca, frontale, priva di compromessi ma anche così poetica per essenzialità e geometria delle azioni. Sia la bambina che i killer in automobile danno infatti vita a un continuo spostamento in avanti e indietro, quasi una danza o un carosello intorno al fulcro costituito dal camioncino dei gelati, vero teatro dell’evento finale. Il pericolo è continuamente posticipato giocando con le aspettative dello spettatore, salvo poi lasciar deflagrare la situazione nel peggiore dei modi.
Tutto il film, in fondo, è costruito lungo la direttrice dello spazio e del tempo, che Carpenter rielabora a livello visivo: le didascalie scandiscono infatti gli orari di quella che a conti fatti è una vicenda tutta ambientata in un’unica giornata e il formato Panavision spalma ambienti e personaggi lungo lo spazio descritto dall’inquadratura, dando vita a autentiche geometrie visive che rendono Distretto 13 il più orizzontale dei tanti film realizzati dal Maestro americano. E qui già subentra uno dei primi elementi di riscoperta, dal momento che il corretto formato dell’immagine per anni è stato modificato dalle varie edizioni video e televisive e solo l’ultimissima uscita in DVD per Stormovie in un bel cofanetto a 2 dischi ha riportato il film ai suoi fasti originali.
Il cielo non si vede quasi mai, Bishop si sofferma un momento a guardarlo prima di entrare nel Distretto, come a presagire che lo aspetta una notte destinata a riscrivere equilibri e a racchiudere in sé il senso del mondo, come accade negli avamposti romeriani o nel Drive-in di Joe Lansdale. Già, perché in fondo quella che viene messa in scena è la realtà di una società che sta riscrivendo i suoi equilibri e vede una gang multirazziale opposta a un gruppetto di eroi pure refrattario alle classificazioni (un tenente di polizia nero, un criminale, una segretaria costretta nel ruolo dell’eroina priva di paure). Le due realtà in fondo si specchiano e dimostrano una certa specularità nel rifiutare una definizione precisa, cercando l’aggregazione in una empatia che scavalchi la convenzione per dare vita a una solidarietà morale che rimanda al modello hawksiano (il film nasce dichiaratamente come omaggio di Un dollaro d’onore). Carpenter dopotutto rinnega la lettura sociologica, ma non nasconde mai l’archetipo del western, rielaborandolo e riproponendolo ancora una volta con una precisione visiva che in sé basta a dare il senso del film.
Pertanto Distretto 13 funziona come mero meccanismo spettacolare che riverbera di riflesso gli umori della sua epoca, ma è già avanti nel suo porsi come consapevole modello di un cinema che omaggia dichiaratamente il passato attraverso una funzionalità di personaggi e situazioni che sono puro archetipo. Probabilmente un giorno bisognerà riflettere sul fatto che la generazione tarantiniana non ha inventato nulla che la New Hollywood già non avesse perfettamente codificato e ha solo perfezionato ed esplicitato ulteriormente come il cinema contemporaneo sia un continuo riproporsi di regole e memorie depositate tanti decenni prima.
Un cinema che perciò è quasi teorico, ma che riesce ad apparire vero per il talento di chi elabora a livello visivo una storia dove i caratteri sono capaci di generare empatia. Questo nonostante i dialoghi secchi ed essenziali siano purtroppo stati sottoposti a brutali modifiche nell’edizione italiana, che ha aggiunto frasi inesistenti e un turpiloquio più insistito, oltre all’amena opening You Can’t Fight It di Kenny Lynch che, seppur molto godibile, rielabora il tema principale e ha il difetto di smontare molta della tensione che diversamente si accumula sin dallo scorrere freddo e asettico dei titoli di testa. La seconda riscoperta del film passa appunto per la visione dell’opera in lingua originale, dove i protagonisti appaiono essenziali, definiti con poche pennellate in modo da riverberare una profondità mitica che li rende irresistibili e che permette di stabilire con pochi aneddoti, qualche gesto, il carisma degli interpreti una relazione profonda con il pubblico. Pura economicità della narrazione, insomma, priva di pretesti e spiegazioni dettagliate, dove anzi poco viene rivelato. Lo stesso ritmo che oggi appare molto pacato (illuminato da brevi lampi di azione) nasconde in realtà una natura contemplativa che è quella di tanto cinema che sarebbe venuto in seguito, che già pare studiare questi caratteri più che raccontarli, per condividere con lo spettatore il piacere del loro attraversare la scena, del loro assecondare le geometrie e le traiettorie descritte dai proiettili che devastano i locali e bucano corpi, oggetti e pareti. Anche per questo Distretto 13, alla luce dei successivi capolavori carpenteriani, appare un film così palesemente fondativo, un prototipo dove è già possibile vedere in nuce sequenze e temi di quello che verrà in seguito: le ombre nella notte degli assalitori come archetipi di Michael Myers, Napoleon Wilson “born out of time” come Jena/Snake Plissken, il membro della gang vestito da Che Guevara come il Cuervo Jones di Fuga da Los Angeles e molto altro ancora.
Distretto 13: Le brigate della morte
(Assault on Precinct 13)
Regia e sceneggiatura: John Carpenter
Origine: Usa, 1976
Durata: 87’
Distretto 13 su theofficialjohncarpenter.com
Galleria di immagini
Il tema principale della colonna sonora
Il brano You Can’t Fight It che apre l’edizione italiana
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