Fang Gang è stato cresciuto come un figlio dal maestro Qi Rufeng, per riconoscenza al padre che gli aveva salvato dalla vita da un attacco ordito da un clan rivale. Gang cresce quindi istruito nelle arti marziali e nelle virtù, al punto che Rufeng vorrebbe nominarlo suo erede, ma i figli naturali non vedono di buon occhio che un ragazzo di umili origini sia posto a capo del clan. Disposto ad andarsene pur di non creare divisioni, Gang viene raggiunto dai fratellastri e mutilato di un braccio. Ritrovato dalla giovane Xiaoman che si prende cura di lui, Gang impara la tecnica di spada con un braccio solo, ma decide di non usarla per ritirarsi a vita privata. I nemici del maestro Rufeng però si rifanno vivi, costringendo infine Gang a rompere la sua promessa e a tornare a combattere.
Siamo agli albori di un genere, o meglio di un rinnovamento che investe tanto l’Oriente quanto l’Occidente e che nel cinema popolare si traduce in una iconografia che fa suoi gli scenari desolati del western per raccontare storie inedite di anti-eroi in cerca di un loro posto, in un mondo governato da una violenza insensata. Mantieni l’odio per la tua vendetta è quindi storicizzato come un autentico precursore del moderno wuxiapian (cinema di duelli con le spade) e, come spesso accade con i prototipi, è gratificato da quella mancanza di consapevolezza che gli permette di sfoggiare una libertà sincera nella ridefinizione dei canoni. Diversamente da quanto infatti accadrà con il pur godibile sequel La sfida degli invincibili campioni, dove il personaggio dello spadaccino monco Fang Gang appare già segnato da una profondità mitica tipica di chi è ormai impresso nella cultura popolare, il capostipite è un film in cerca di una sua identità, parallelamente al travaglio vissuto dallo sventurato protagonista.
Sebbene la trama ponga infatti in essere una serie di passaggi che nel tempo sono diventati autentici cliché (il libro che custodisce i segreti di una antica arte marziale, la promessa di non combattere infranta per raddrizzare i torti) ciò che più colpisce è la sostanziale ricerca di un baricentro da parte di un protagonista che sembra destinato a riflettere nella sua menomazione una preesistente mancanza di radici. Fang Gang è un senza-ruolo, cresciuto per riconoscenza e snobbato dai fratelli, anche quando (è il caso della sorellastra) questi covano una profonda ammirazione che sfiora nel desiderio. Sarà anzi proprio la sorella a provocargli quella menomazione, in una scena che non ha lo spessore epico che ci si aspetterebbe e che appare invece casuale, orchestrata con una teatralità della messinscena che sfora però nell’involontario: il film stesso sembra in quel momento incerto sul destino che da quel momento in poi Fang Gang dovrà affrontare.
E’ un destino che però gli riserva l’inattesa svolta verso quella stabilità affettiva fino a quel momento negata dagli eventi: l’incontro con Xiaoman, infatti, garantisce a Gang quella compagna e quella sicurezza di essere accettato che fino a poco prima sembrava irrealizzabile. Non a caso sarà proprio Xiaoman a consegnargli il manuale che gli consentirà di acquisire il nuovo stile di lotta, in grado di renderlo invincibile. La menomazione non diventa quindi una via per l’imbattibilità, le tentazioni supereroiche sono infatti ancora lontane, ma semplicemente un modo che permette a sentimenti e corpo di coincidere nella loro incompletezza, dando forma a un individuo nuovo e, per questo, finalmente compiuto. La stessa spada spezzata che l’eroe brandisce nella sua mano diventa metafora di una capacità guerriera che solo nell’incompletezza del proprio corpo trova la sua realizzazione e acquisisce piena potenza.
Fang Gang quindi diventa scheggia inclassificabile all’interno di un ordine scompaginato dalla violenza perpetrata in modo casuale ma implacabile. Anzi, si potrebbe affermare che proprio il fatto di aver provato sulla propria carne la sconsideratezza della violenza lo ha reso consapevole dei limiti di un’umanità ormai alla deriva. Per questo Gang riesce ad andare oltre, a superare tecniche e trucchi e a compiere l’impossibile impresa di diventare un eroe nonostante il suo modo di combattere anticonvenzionale. E’ una metafora sin troppo chiara di un momento storico che necessita di soluzioni nuove per comprendere una realtà mutevole e pronta a sciorinare nuove e inaspettate difficoltà. La tradizione incarnata dal maestro Rufeng viene dunque contrastata dal bloccaspade dei nemici, che però si rivela inutile contro i fendenti del rinato Gang. Il protagonista può quindi diventare l’ago della bilancia dello scontro fra le parti, così come il suo film diventa il faro di un nuovo corso che passa per i nuovi codici ormai noti a tutti gli specialisti del genere: teatrali spargimenti di sangue, eroi tormentati che difendono strenuamente i loro principi, una visione del mondo fortemente maschile.
In mezzo, come olio che scorre fra gli ingranaggi c’è ancora una forza melodrammatica che crea empatia con i drammi di questo giovane eroe senza casa e rende il suo travaglio più intenso e lacerante. Quella che dunque Gang attraversa è perciò un’autentica ricostruzione di sé che il pubblico percepisce come tale e lo rende un inedito paladino.
Il film, diventato un classico del genere, ha avuto una eccellente rivisitazione del 1995 con The Blade di Tsui Hark, che si pone come intelligente caso di remake critico, che riflette visivamente e tematicamente i nuclei della storia.
Mantieni l’odio per la tua vendetta
(Dubei dao/The One Armed Swordsman)
Regia: Chang Cheh
Sceneggiatura: Cheh Chang e Kuang Ni
Origine: Hong Kong, 1967
Durata: 111’
Recensione di Dead Inside
Chang Cheh su Wikipedia
Biografia di Jimmy Wang Yu (in inglese)
Una clip dal sito della Avo Film
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