Il brigante di Tacca del Lupo
1863. Dopo l’Unità d’Italia il meridione è agitato da fermenti antigovernativi che sfociano nel brigantaggio: a Melfi, in Basilicata, i briganti guidati da Raffa Raffa mettono a ferro e fuoco il paese per tre giorni, prima di riprendere la via delle montagne con gli ostaggi. Sul posto viene quindi inviato il Capitano Giordani, uomo inflessibile e determinato a sgominare la banda di Raffa Raffa. Inizia così un viaggio lungo gli scenari desertici di un meridione ostile e carico di problemi, costellato di vicende individuali dolorose e di confronti serrati tra posizioni differenti, fino allo scontro finale.
Oggi che la questione meridionale ha trovato un corrispettivo in una questione settentrionale che tiene banco soprattutto nelle sue più beceri manifestazioni separatiste, può essere utile riscoprire questo bel film di Pietro Germi, che nel 1952 traspone il romanzo omonimo di Riccardo Bacchelli, esplorando i difficili retroscena dell’Unità d’Italia. Il tentativo non si innesta nell’ambito del contemporaneo filone neorealista, ma tenta ugualmente di gettare uno sguardo nuovo su una realtà storica dimenticata e marginale, nell’ambito di una pellicola popolare che guarda a modelli altri, con particolare riferimento al western americano. Non solo: Germi rinnova infatti anche la sua passione per i linguaggi e la loro commistione. Il dramma storico sfocia quindi in grandi scene d’azione e non dimentica alcuni passaggi colorati di ironia, dimostrando un gusto spiccato per i volti e per i contrasti dialettali (fra la gente del Nord e quella del Sud Italia). L’intera storia a tratti può sembrare frantumarsi in rivoli isolati, ma infine la sceneggiatura trova la quadratura del cerchio permettendo ai singoli archi narrativi di incastrarsi in una struttura unitaria e coerente.
Ciò che soprattutto colpisce è però la qualità della messinscena, che riesce a elaborare lo spazio lavorando sul contrasto fra la ristrettezza delle vie e delle abitazioni dei paesi lucani, e la vastità degli scenari pietrosi e desertificati. Il sole abbonda e brucia tutto, ma, in ossequio ai magnifici contrasti della terra raffigurata, riesce a ritagliare anche zone d’ombra che la splendida fotografia di Leonida Barboni rende cupe e materiche come i corpi stessi degli attori, capaci di stagliarsi fieri ma anche di portare con sé i segni della miseria e della fatica. Il risultato è un film che, fatti i debiti distinguo, riverbera la fisicità di un De Santis, unita alla composizione pittorica di un Welles e respira pertanto di un afflato universale che non soffre la localizzazione degli eventi.
In questo scenario il film pone in essere un interessante poetica della non appartenenza a un luogo, che permette alla storia di superare i facili manicheismi: il capitano Giordani (un ottimo Amedeo Nazzari) pare essere l’unico personaggio realmente italiano, consapevole cioè di lottare per uno Stato che ora è da intendersi come unitario e si prodiga affinché chiunque intorno a lui capisca che la posta in gioco è il futuro di una nazione. Tutto questo in una realtà che da un lato rivendica appartenenze a un passato cancellato dalla storia (i briganti si propongono come seguaci dell’estinto regno borbonico) e dall’altra non riesce, anche nelle sue autorità, a credere a un’unità soprattutto formale (le stesse autorità di Melfi accolgono i briganti senza colpo ferire).
All’idealismo di Giordani si contrappone quindi il cinismo dei bersaglieri, visti come “stranieri” in una terra che avvertono come ostile nei loro confronti e pronta a offrire complicità ai briganti. Propotenti, spesso scoraggiati ma pronti a urlare di non voler morire su un suolo che ritengono non loro, i soldati diventano la maggiore coscienza critica del film, per la loro capacità di mettere in evidenza i contrasti di una nazione ancora intimamente divisa e la cui unione sembra essere stata decisa a tavolino senza tenere realmente conto delle diverse realtà che compongono la nuova nazione. Questo scenario viene infatti complicato dal complesso reticolo di usanze depositate nella memoria e nelle consuetudini sociali del Sud e trova una sua efficace raffigurazione nel personaggio di Zitamaria, che è stata oggetto di violenza da parte del bandito Raffa Raffa e che perciò dovrà essere vendicata dal marito Carmine, ma nello stesso tempo deve sopportare anche la vergogna di una comunità che non la riconosce più come propria e la ritiene disonorata. In questi momenti il film gioca alcune delle sue carte migliori, dando fondo a una tensione melodrammatica in grado di catturare l’attenzione dello spettatore.
La donna è peraltro fatta oggetto anche delle lascive attenzioni degli stessi bersaglieri, che scardinano in questo modo il facile manicheismo insito nella caratterizzazione del brigante animalesco contrapposto al soldato civile: al contrario la truppa comandata da Giordani è raffigurata come disordinata e male assortita, spesso costretta nel ruolo di carne da macello dallo stesso capitano che, senza molti scrupoli, è disposto a sacrificare uomini e civili pur di raggiungere il suo scopo.
Ciononostante, anche lo stesso Giordani dovrà scendere a compromessi con una realtà complessa, incarnata dal commissario Siceli, fautore di una politica più vicina alle consuetudini della realtà meridionale, spesso preferite alle regole care al governo centrale: il realizzarsi dello scontro finale con Raffa Raffa sarà perciò reso possibile proprio dai contrasti sorti in seno alla comunità lucana, a causa di quei meccanismi millenari dell’onore che vedranno il bandito predone diventare infine vittima della vendetta, prima ancora che della giustizia. La riconciliazione fra Zitamaria e Carmine sancirà proprio la riunificazione di una realtà disgregata e non a caso il finale vedrà anche Giordani tendere una mano a chi in precedenza aveva considerato un nemico. Il viaggio della truppa italiana, dunque, diventa un percorso che permette al film di riverberare una certa modernità nel suo impianto popolare ma dai risvolti, se non propriamente sociologici, quantomeno più acuti di quanto non ci si aspetti da una pellicola del genere. Per poter meglio affrontare le sfide della contemporaneità, insomma, bisogna conoscere i meccanismi portati avanti da una Storia e un tempo che si sono stratificati nella memoria e negli usi comuni. Un film da recuperare.
Il brigante di Tacca del Lupo
Regia: Pietro Germi
Soggetto: Federico Fellini, Pietro Germi, Tullio Pinelli (dal romanzo di Riccardo Bacchelli)
Sceneggiatura: Pietro Germi, Tullio Pinelli, Fausto Tozzi
Origine: Italia, 1952
Durata: 95’
Pagina di Wikipedia dedicata al film
Biografia di Pietro Germi
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