Buon Natale
"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."(John Carpenter)
martedì 25 dicembre 2012
domenica 23 dicembre 2012
Habemus Godzilla!
Habemus Godzilla!
C'è voluto più tempo del previsto, ma ora è finalmente pronto il mio libro Godzilla il re dei mostri: Il sauro
radioattivo di Honda e Tsuburaya, che avevo annunciato a fine ottobre, quando avevo anche pubblicato l'indice in anteprima.
Il volume è attualmente
in fase di distribuzione, in questo momento è già acquistabile su
Amazon, nei prossimi giorni lo sarà anche negli altri portali più
noti e nelle librerie italiane.
Questo post continuerà a essere periodicamente aggiornato con i link ai siti che vendono il volume: ricordo che è possibile accedere a tutti i post correlati cliccando sull'immagine del libro qui a destra o attraverso l'etichetta "Miei lavori".
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Buona lettura a tutti!
Il libro su Deastore
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venerdì 21 dicembre 2012
Maniac (2012)
Maniac (2012)
Frank Zito è un
serial killer: abborda giovani donne, casualmente o dando loro
appuntamento via chat, per ucciderle e scotennarle, e con i loro
capelli decora i manichini del suo laboratorio. A guidarlo sono i
traumi provocati da un rapporto difficile con la madre, ormai
defunta, e che si divertiva a provocarlo passando da un amante
all'altro, quando non lo puniva. Frank agisce come in preda a un
disturbo bipolare della personalità, che si manifesta attraverso
forti emicranie. Un giorno, però, alla sua porta bussa Anna, una
fotografa affascinata dai manichini esposti nel laboratorio: la
ragazza inizia una relazione con lui e lo coinvolge nei suoi
successi, ma infine Frank non riuscirà a nascondere la sua vera
natura.
Come già si
è scritto da queste parti, il nuovo Maniac,
più che un semplice remake è un film che rende merito all'idea di
re-imagining. Ci riesce perché, nel rimettere in scena la
storia di Frank Zito, le fa compiere il doveroso passo in avanti,
evolvendo e sviluppando alcune idee presenti in nuce nel prototipo
di William Lustig. Gli sceneggiatori
Alexandre Aja e Gregory Levasseur, infatti, optano per una struttura
più forte rispetto all'originale, complice una dimensione produttiva
più solida che permette un maggior lavoro di pianificazione:
inoltre, forti del senno del poi, i due - di concerto con il regista
Franck Khalfoun - riescono ad affrancare l'operazione dalla semplice
ricognizione sui codici dello slasher, per abbracciare in
pieno il concept dell'alienazione metropolitana e del disagio
del protagonista, qui più evidentemente affetto da un disturbo
bipolare della personalità.
Non che manchi la
violenza, fortissima anzi nelle scene in cui Frank scotenna le sue
vittime, ma stavolta si ha più la sensazione di un bilanciamento fra
l'affidarsi alla semplice forza espressiva della rappresentazione
della morte e la dimensione interiore del killer. Quest'ultimo
aspetto, infatti, sebbene già presente nel prototipo, assume
maggiore centralità attraverso le forti emicranie che colgono Frank
all'improvviso, quasi a voler costituire un monito nei suoi
confronti: all'atto pratico, i dolori gli impediscono quindi di
fuggire dal destino di morte che l'uomo si è tracciato,
condannandolo alla perenne reiterazione degli omicidi.
Pertanto, la sua continua
ricerca di una compagna, non risulta subordinata unicamente al
bisogno di soddisfare la propria sete assassina, ma al contrario al
desiderio di crearsi una possibilità che gli permetta di spiccare
finalmente il volo verso un nuovo futuro. Di qui anche la dialettica
visiva che il film chiama in causa con l'uso felice della soggettiva
assoluta. Lo spettatore “vede” il mondo dal punto di vista di
Frank, ma allo stesso tempo il personaggio riflette la sua doppiezza
a volte “uscendo” dalla dimensione in prima persona, come se si
“vedesse dall'esterno”. Il regista Frank Calkhoun non scioglie
mai la riserva se questi momenti siano subordinati alla semplice
logica spettacolare (inquadrare i delitti “dal di fuori” per
renderli graficamente più potenti) oppure per sottolineare proprio
l'estraneità del Frank “interiore” rispetto a quello esteriore:
l'ambiguità è infatti un altro degli aspetti interessanti
dell'operazione, e trova il suo punto di forza nell'aspetto
rassicurante di Elijah Wood, qui preferito alla prepotente fisicità
di un Joe Spinell.
Ci sono alcune
concessioni al marketing e al fandom: gli eccessivi rispecchiamenti
su superfici riflettenti per inquadrare il volto di Wood, o la scena
in cui lo vediamo dal collo in giù con i capelli della sua vittima
in mano, come nella locandina del Maniac originale; ma, a
parte questi isolati aspetti, il film che ci si para davanti è
crudele, compatto e sfaccettato, e la sua dialettica con il
precursore si ritrova principalmente nel tentativo di recuperare un
rapporto “dal basso” con la città, fatta di notti al neon,
musiche e tinte cupe e ossessive. Partendo da questa struttura, il
film si innalza secondo una logica che è più verticale che
orizzontale, dove troviamo lussuosi appartamenti con ampie finestre
sul panorama cittadino e un generale senso di ariosità che crea un
felice contrasto con le discese di Joe Spinell nelle viscere della
metropolitana.
La battaglia diventa
quindi ancora una volta estetica: in questo modo il nuovo Maniac
porta a definitivo compimento quel processo di riqualificazione e
“plastificazione” dell'immaginario che, dai tempi del film di
Lustig, è giunto alle dinamiche “digitali” dell'epoca odierna.
Ecco dunque le chat attraverso le quali ci si conosce via foto e
tutta la dinamica dei corpi femminili tatuati, mascherati in ruoli
ben definiti (la ballerina, la fotografia, l'agente dai modi
bruschi), che trova poi la sua rappresentazione ideale nei manichini
di Frank. Non a caso stavolta Anna smette di fotografare corpi reali
e utilizza invece le statue restaurate dallo stesso Frank, rendendo
in questo modo il legame fra i due più pertinente alla storia e
avvicinando i personaggi. Li vediamo infatti anche in momenti intimi,
come quando vanno al cinema insieme, e in generale la loro relazione
ha un peso specifico molto maggiore rispetto al film di Lustig.
C'è poi un altro punto
di differenza fondamentale rispetto al prototipo: la rappresentazione
delle donne e della violenza che Frank infligge loro è stavolta più
consapevole del suo potenziale pruriginoso e della dinamica di
desiderio/punizione che si genera con lo spettatore. Il mondo del
“nuovo” Frank è infatti attraversato e retto da donne
bellissime, intraprendenti e sicure della propria fisicità, di
fronte alle quali il protagonista è “timido”: l'agguato diventa
quindi una traslazione del desiderio che l'uomo (e lo spettatore)
prova per loro, rendendo il tutto molto più ambiguo.
L'esito è perciò se
vogliamo meno allucinato e malsano, ma più lirico nella sua
potenzialità malinconica. E le punizioni che Frank infligge alle sue
vittime fanno forse ancora più male, in particolare se a farne le
spese sono creature angeliche come l'Anna di Nora Arnezeder, dotata
di una gamma espressiva che la vede insieme forte e fragile,
esattamente come accade con Frank. Di fronte a un ritratto così
composito, l'idea di un ipotetico lieto fine (che il film accarezza,
pur negandola alla prova dei fatti) non spaventa così tanto, ma anzi
diventa quasi una allettante possibilità.
UPDATE: uscito in Italia direttamente nel mercato dell'home video il 28 Maggio 2014.
Maniac
(id.)
Regia: Franck Khalfoun
Sceneggiatura:
Alexandre Aja, Grégory Levasseur
Origine: Usa, 2012
Durata: 93'
mercoledì 19 dicembre 2012
Maniac
Maniac
Frank Zito è un
serial killer: il suo obiettivo sono giovani donne che, in una
visione distorta del mondo, gli ricordano la madre con cui, da
piccolo, aveva un rapporto difficile, fatto di gelosie e
maltrattamenti. Frank le tallona, le assale e le scotenna, per poi
usare i loro capelli per decorare i manichini che custodisce in casa.
La sua vita sembra però prendere una svolta dopo l'incontro con
Anna, una fotografa di modelle con cui inizia a instaurare una
relazione apparentemente priva di problemi. Ma i demoni interiori
torneranno a farsi sentire...
L'omicidio iniziale della
coppia sulla spiaggia sancisce immediatamente i canoni di una
dinamica slasher da cui un film come Maniac
naturalmente discende. Allo stesso tempo, però, il successivo giro
in città di Frank Zito, con relativo abbordaggio di una prostituta,
sembra molto più vicino alle atmosfere decadenti di un Taxi
Driver che ai vari Venerdì 13. Il film in fondo si ritrova in questa dinamica del doppio
passo: da un lato si offre come un testo interessato al confronto
diretto con l'horror coevo, dall'altro come un cascame dei racconti
di alienazione metropolitana all'epoca portati avanti da registi come
Michael Winner o Martin Scorsese.
D'altra parte, bisogna
anche considerare la diversa estrazione degli artefici: William
Lustig all'epoca aveva un trascorso nel cinema hard e, da conoscitore
e cultore del cinema di genere, doveva essere probabilmente più
ispirato dalla prima delle due possibilità (elaborare i
codici dello slasher). La sua mano si avverte anche in alcuni
tocchi propriamente splatter, come la celebre fucilata al malcapitato
automobilista (interpretato non casualmente da un volto cult
dell'horror come Tom Savini, anche autore degli FX) o la
“resurrezione” finale della madre di Frank, una figura che sembra
uscita dai vicini zombie-movie di Lucio Fulci (in particolare Zombi
2).
Joe Spinell, che del film
è interprete, autore del soggetto e co-sceneggiatore, veniva invece
da un cinema più “impegnato”, il suo volto butterato aveva fatto
capolino nelle saghe del Padrino, di Rocky e nel già
citato Taxi Driver. L'aspetto più intrigante del film diventa
quindi questa continua dialettica alto/basso che si ritrova anche
nella particolare forma cinematografica: si passa infatti dal dilettantismo
di alcuni momenti - figli, evidentemente, della fretta con cui si
dovettero girare molte scene, essendo la troupe mancante di permessi
- a scene che invece riescono a centrare magnificamente la poesia
malsana del soggetto. Lustig immerge lo spettatore nella mente del
mostro, attraverso autentiche soggettive associate che, con il solo
uso espressivo del grandangolo, riescono a portare la storia su
binari allucinati. L'attitudine malsana del testo si stempera così
in una visionarietà malinconica, che lascia intravedere un minimo
barlume di speranza nella storia con Anna.
In mezzo c'è il corpo
ingombrante e magnificamente laido di Joe Spinell, che disegna un
killer ributtante e feroce e che riesce a esprimere la forza del suo
personaggio con la sola fisicità, più che con i monologhi o le
azioni. Con il senno di poi, è possibile vedere nella forza
espressiva garantita dalla semplice potenza iconica dell'attore uno
scampolo di una possibile poetica sul potere dell'immagine, che
diventerà effettivamente predominante nei decenni a venire. Non
appare dunque casuale che il film chiami in causa molto spesso
l'arte, con la decorazione dei manichini, Frank che si presenta come
un pittore e Anna che è una fotografa. Sebbene il film motivi
l'ossessione del protagonista per i manichini come un tentativo di
“fermare” la bellezza perduta delle donne in cui rivede
l'amata/odiata madre, è parecchio intrigante pensare che
sottotraccia si nasconda una critica alla “plastificazione”
dell'immaginario che sempre più negli anni a venire trasformerà
l'immagine femminile (in particolare quella fotografica) in
grottesche creature inanimate, prive di ogni imperfezione esteriore.
Non è dato sapere quanto Lustig fosse consapevole, ma il suo Frank
Zito è stato il primo esponente di una battaglia estetica combattuta
sul corpo delle donne.
Al di là di questi
possibili livelli secondari di lettura, il film funziona anche se
preso semplicemente per quello che é. Lustig, infatti, cerca di
andare al di là della semplice coazione a ripetere degli omicidi: in
particolare, la morte della modella si fa notare per il momento in
cui Frank, dopo aver pugnalato la vittima, si muove sul suo cadavere
mentre il sangue che fuoriesce dalla ferita descrive una grottesca
parodia dell'amplesso, resa ancor più oscena dal discorso incestuoso
che coinvolge il personaggio. E' interessante notare come la dinamica
eros/tanatos posta in essere dal film trovi la sua realizzazione
soprattutto nell'espressione dell'atto violento: per il resto,
infatti, il film è insolitamente privo di componenti pruriginosi,
anche laddove coinvolge direttamente il nudo femminile o il sesso.
Lustig, suo malgrado, esplicita la tensione celibe dell'horror e in
questo trova sponda nel suo protagonista, arrivando a comprenderne i
disturbi della sfera sessuale, che non sono figli dell'impotenza
fisica, ma di una dinamica tutta mentale.
Tutte le direttrici
confluiscono poi nel magnifico finale che segna la saldatura tra
realtà e finzione, tra dimensione soggettiva e realtà oggettiva,
sposando definitivamente l'idea dell'amore che si fa morte e della
forza violenta che diventa anche atto di possessione fisica. Il
momento, potentissimo a livello emotivo e visivo, segna anche la
perfetta sovrapposizione fra la due nature del film, quella più
interessata alla pura dinamica horror e quella che focalizza invece
la sua attenzione sul senso di solitudine di un uomo ormai
prigioniero delle sue ossessioni. Anche per questo, la sorte di Frank
sembra quasi porsi come un rovesciamento del massacro salvifico
perpetrato da Travis Bickle in Taxi Driver.
Il film è considerato
oggi un classico nella trattazione dei serial killer (in netto
anticipo rispetto ai più noti American Psycho, Assassino
senza colpa, Manhunter o Henry: Pioggia di sangue):
pare che Spinell abbia lottato per anni per realizzare un sequel,
salvo morire dopo essere riuscito solo a girare un promo reel.
William Lustig si vede in un cameo come addetto alla reception
dell'hotel dove Frank si incontra con la prostituta.
Maniac
(id.)
Regia: William Lustig
Sceneggiatura: C.A.
Rosenberg, Joe Spinell (soggetto di Joe Spinell)
Origine: Usa, 1980
Durata: 83'
giovedì 13 dicembre 2012
E.T. - L'Extra Terrestre
E.T. - L'Extra Terrestre
Un alieno in
ricognizione sulla Terra viene abbandonato dai compagni, fuggiti per
l'arrivo improvviso di una squadra di umani. L'essere viene trovato
da Elliott, un bambino che sta attraversando un periodo difficile a
causa del divorzio dei genitori. Il piccolo condivide il segreto
dell'alieno, ribattezzato E.T., con il fratello maggiore Michael e la
sorellina Gertie. Elliott, comunque, è l'unico a stabilire un legame
di simbiosi con l'extraterrestre, percepisce le sue emozioni e le
condivide. Ben presto E.T. si ambienta quel tanto che gli basta per
riuscire a creare un comunicatore in grado di richiamare i suoi
compagni dallo spazio. Il tempo a disposizione, però, non è molto:
l'atmosfera del nostro pianeta rischia infatti di nuocergli. E
inoltre le autorità sono sulle sue tracce...
A
Carlo Rambaldi
30 anni dopo la prima,
trionfale, uscita nelle sale, l'alieno più famoso di tutti i tempi
torna nelle sale del circuito The Space Cinema per una riedizione che
centra i festeggiamenti per il centenario della Universal e l'uscita
della versione Blu-Ray Disc. L'occasione è quella giusta per
riconciliarsi con un autentico classico e per re-impararne la
lezione, in ossequio a quello scambio reciproco di esperienze e
emozioni che l'extraterrestre compie, all'interno del film, con i
suoi amici bambini. Se infatti un torto è stato commesso nei
confronti del capolavoro spielberghiano è quello di aver
frettolosamente costretto il film nel cono d'ombra del clamoroso
successo commerciale ottenuto ai botteghini nel 1982 (quando
raggiunse la vetta di film più visto della storia del cinema). Fatto
che, inevitabilmente, lo ha incasellato nella categoria futile del
blockbuster, e della perfetta macchina da soldi, pensata
furbescamente per il successo, e quindi priva di reali valori che
andassero al di là della maliziosa tecnica strappalacrime.
Rivisto con la giusta
distanza temporale, E.T. si dimostra al contrario per il
piccolo film che è, nemmeno troppo commerciale nelle scelte: pochi
dialoghi, ambientazione quasi tutta circoscritta alla casa del
piccolo Elliot (con qualche incursione nelle vicine vie cittadine o
nel bosco poco distante), ritmo lento e sognante che, soprattutto
nella prima parte, crea una particolare atmosfera sospesa. Persino gli effetti speciali del compianto Carlo Rambaldi, all'avanguardia per l'epoca, oggi riflettono un forte sapore di artigianalità. Steven
Spielberg riparte dal suo Incontri ravvicinati del terzo tipo,
ma ne crea una versione intimista e fiabesca, che parla direttamente
al pubblico dei giovanissimi. A un certo punto Elliott spiega alla
sorellina Gertie (un'adorabile Drew Barrymore) che “solo i bambini
possono vedere” l'alieno. Si tratta di un escamotage per impedirle
di rivelare la presenza del nuovo arrivato agli adulti, ma in effetti
il film conferma in più occasioni questa regola. Valga solo come
esempio la sequenza slapstick in cui E.T. si muove per la casa
senza essere visto dalla madre di Elliott; d'altra parte l'unico suo
modo per palesarsi al mondo è mascherato da fantasma durante la
parata di Halloween e l'altro grande contendente al ruolo di suo
conoscente è il misterioso “uomo con le chiavi” (capofila dei
cercatori che tentano di stanare l'alieno), che sognava di vederlo
“da quando aveva 10 anni”, ovvero l'età dello stesso Elliott.
E' chiaro come Spielberg
predichi un ritorno all'infanzia, da lui vista come un'età pura,
perché ancora vergine dai condizionamenti esterni, ma già capace di
comprendere le implicazioni più drammatiche del mondo. Elliott
infatti risente della lontananza del padre e si lega in questo modo
all'amico spaziale che, come lui, vive la mancanza dai compagni
galattici. In ossequio al nuovo immaginario fondato insieme all'amico
George Lucas (chiamato in causa attraverso molteplici citazioni da
Star Wars), Spielberg fonda una palingenesi che vede nello
spazio la frontiera in grado di preservare il valore dell'innocenza
(rappresentata da E.T.), ma anche di fornire soluzioni a un mondo
tarato sulla misura degli adulti. Ecco dunque che il film si muove ad
altezza di bambino, gli adulti sono spesso raffigurati con la testa
in fuoricampo (come nelle comiche di Tom & Jerry, che non a caso
fanno capolino in tv) e ritratti in modo grottesco, come gigantesche
e minacciose presenze che donano al film quel sapore un po' dark
tipico di un'età in cui le sensazioni sono più forti e il mondo
appare sotto una luce a tratti minacciosa. D'altra parte, gli umani
del film risultano schiavi di una visione scientifica che non è in
grado di salvare E.T. dalla sua malattia e che si estrinseca in
esperimenti, tute asettiche, intubazioni che rimandano un po' a un
immaginario gotico da inventori pazzi alla Frankenstein (e alla fantascienza anni Cinquanta, qui simboleggiata dalla citazione televisiva di Cittadino dello spazio).
Al contrario il rapporto
fra l'alieno e Elliott funziona perché è di tipo empatico,
sottolineato dalla sequenza iniziale in cui E.T. ripete i movimenti
dell'umano, esattamente come avveniva in una celebre scena de Lo
squalo, dove il capo Brody vedeva il figlio “rifare” le sue
espressioni. Dopotutto questa è una storia di legami, ma anche di
rapporti padre/figlio traslati su figure vicarie. Ecco dunque che
E.T. è allo stesso tempo un bambino, con cui condividere i giochi, i
trucchi di Gertie o i mascheramenti di Halloween e che si nasconde
fra i pupazzi, rendendosi “invisibile” agli occhi della madre; ma
è anche un adulto che sa costruire marchingegni complessi e ha
accesso a tecnologie sconosciute e poteri che gli permettono di
spostare gli oggetti con il pensiero. E', insomma, il prototipo
perfetto di un “uomo nuovo” e più evoluto, che Spielberg
identifica nelle stelle e che potrebbe elevare l'umanità e salvarla
dai propri errori: di qui anche la velata connotazione messianica
data dalla capacità di guarire le ferite altrui con il suo dito
luminoso o di far rinascere una pianta ormai appassita.
Il film, in ogni caso,
evita dicotomie troppo nette: se gli adulti, pur nel loro
accanimento, non paiono mai del tutto “cattivi” verso il nuovo
arrivato, è allo stesso tempo evidente come E.T., pur costituendo un
possibile modello evolutivo per l'umanità, impara anche molto dalla
stessa. Apprende infatti la lingua terrestre e la forza dei
sentimenti, attraverso una sequenza-omaggio a Un uomo tranquillo
di John Ford. Regista che, non a caso, guardava sempre al valore
fondativo di una comunità e alla palingenesi e che, per questo, ha
molto più in comune con Steven Spielberg di quanto generalmente non
si creda.
E.T. - L'Extra
Terrestre
Regia: Steven
Spielberg
Sceneggiatura: Melissa
Mathison
Origine: Usa, 1982
Durata: 115'
domenica 9 dicembre 2012
Le 5 leggende
Le 5 leggende
Babbo Natale (Nord),
il Coniglietto pasquale (Calmoniglio), la Fatina dei Denti (Dentina)
e Sandman (Sandy), l'Uomo dei Sogni, sono i Guardiani che proteggono
i bambini e infondono nel mondo meraviglia, speranza, gioia e sogno.
La loro missione sta però per essere messa a dura prova dal ritorno
di Pitch Black, l'Uomo Nero, che intende far trionfare la Paura
cancellando dai cuori dei bambini la fede nei valori positivi e nell'esistenza stessa dei Guardiani. Così,
i quattro sono costretti a unire le forze e, dietro mandato del
misterioso Uomo della Luna, che su tutto vigila, devono anche
annettere alla compagnia un nuovo Guardiano: si tratta di Jack Frost,
maestro delle nevi e dell'inverno. Ma quale ruolo può avere un
personaggio così solitario e dispettoso, spesso associato al freddo
e alle intemperie, con i Guardiani? La missione si sposa quindi con
la ricerca del “centro” di Jack, collegato al suo passato, quando
ancora era un essere umano...
Guillermo Del Toro ha
compiuto il miracolo: il grande regista messicano (qui produttore
esecutivo e consulente artistico) è infatti riuscito a piegare alla
propria poetica la formula della Dreamworks Animation, da sempre
appiattita su ritmi forsennati e banali ammiccamenti alla cultura
pop, incapaci di esprimere appieno la forza delle pur buone idee a
disposizione. Incredibile ma vero, nell'anno in cui la concorrente
Pixar ha sfornato l'unico suo prodotto deludente (Brave),
afflitto proprio dai difetti che sempre erano imputabili alla
Dreamworks, la casa della mezzaluna ci regala il film più maturo
della sua produzione, un'ode dolcissima e poetica al meraviglioso e
alla capacità di sognare.
La mano di Del Toro è
evidentissima nel piacere della narrazione e nel ritmo contemplativo
che permette alla storia di dispiegarsi senza rinunciare mai
all'esaltazione delle caratteristiche precipue di un racconto pensato
per il bambino che è in ogni spettatore, come a voler proclamare il
valore della fede nel fantastico. Non siamo molto lontani nemmeno dai
territori di uno Steven Spielberg e in effetti serpeggia un'atmosfera
da fantasy pre-digitale (nonostante le mirabilia tecniche
offerte proprio dalla Computer Graphic), vicine anche a certe opere
di Hayao Miyazaki (i buffi elfi di Babbo Natale sembrano usciti da
un'opera del Maestro giapponese) e ai libri di Michael Ende, con in
testa l'indimenticata Storia infinita. Anche in questo caso,
infatti, il racconto, oltre a costituire un'epica avventura che
avviluppa lentamente lo spettatore nelle spire di una grande
battaglia fra Bene e Male, è altresì una ricognizione critica e un
lavoro di smontaggio e rimontaggio sui codici della narrazione e
della mitologia popolare.
I Guardiani del film,
infatti, mostrano una natura “teorica”, in quanto risultano
costruiti secondo una dinamica di gruppo che guarda ai codici delle
fiabe e dei racconti d'avventura: Nord è un personaggio istrionico
ed è il capobanda, raffigurato come una sorta di vecchio pirata (con
tanto di scimitarre e tatuaggi); Calmoniglio è l'elemento irrequieto
e più “bellicoso” del gruppo; Sandman è il buffo comprimario
silenzioso, che nella sua apparenza quieta e pacioccona nasconde
incredibili poteri; Dentina è l'elemento “schizzato” e
iperattivo. La loro interazione funziona quindi anche in
virtù delle reciproche e diverse caratteristiche caratteriali. I
quattro, naturalmente, rappresentano poi anche diverse “tappe”
del fantastico, in rapporto al tempo e all'età delle persone: c'è
il Natale, la Pasqua, il momento del sonno e quello della perdita dei
denti da latte, che segna il passaggio dalla prima infanzia alla
vigilia dell'adolescenza.
L'interazione dei Guardiani
diventa così anche un simbolico percorso di formazione che si definisce
attraverso il confronto con l'Uomo Nero, rappresentante dei
timori collegati alla perdita dell'innocenza e, quindi, al
raggiungimento dell'età adulta. Non a caso la lotta si snoda su un
piano ideale che è anche quello del mantenimento della linearità
del tempo: Pitch Black, infatti, vuole far “tornare indietro” il
mondo ai secoli bui, laddove i Guardiani vigilano perché ogni
bambino possa sostanzialmente compiere il suo percorso di vita
in maniera lineare.
Il punto di fuga offerto
da una dicotomia così netta è garantito da Jack Frost, il quale è
effettivamente il personaggio che deve compiere il suo percorso, ma
lo deve fare sia sconfiggendo Pitch (e dunque proteggendo la
linearità temporale) sia “tornando indietro” all'infanzia,
secondo una dinamica quasi psicanalitica che dice della complessità
del testo. Il confronto con i ricordi, che permettono di individuare
il “centro” del personaggio, ha infatti il sapore di una seduta
che permette a Jack di diventare finalmente membro a tutti
gli effetti del gruppo e di costituire allo stesso tempo l'elemento
cerniera con quell'infanzia che i Guardiani (guarda caso tutti
adulti) di fatto proteggono, ma dimostrano di non conoscere fino in
fondo.
Al contrario, Jack è
l'unico a coltivare ancora il piacere del gioco e della
collaborazione con i bambini, perché è l'unico a comprendere
realmente la materia in cui è coinvolto. Ci riesce per un motivo
molto semplice: perché, oltre al divertimento, conosce la mancanza
dello stesso. I ragazzi infatti si giovano dei suoi poteri, ma non
riescono a vederlo. Frost, insomma, è l'unico personaggio che non
aderisce facilmente a uno schema (la storia infatti stravolge anche
abbastanza la sua classica iconografia, mostrandolo come un novello Peter Pan) e per questo si dimostra un personaggio
particolarmente maturo, a metà fra i due mondi contrapposti. Il suo
cuore guarda all'innocenza (matrice dei valori difesi dai
Guardiani), ma non ignora né demonizza semplicemente il potere della
Paura che attiene a Pitch: al contrario, ne comprende bene la forza,
e perciò lo scontro con il cattivo assume anche i termini di una
contesa personale.
L'aspetto più
interessante (e qui ritroviamo ancora Del Toro e il suo amore per
i legami affettivi) è però dato dal fatto che la cognizione di
Frost non lo pone come elemento più potente del gruppo (qualifica
che può invece essere attribuita a Sandman, che pure subisce più
degli altri la forza di Pitch): al contrario, la vittoria arriva
grazie alla cooperazione che Jack permette di instaurare fra
Guardiani e bambini, che nel finale si uniscono contro il nemico
comune, in una dinamica che eleva a potenza la forza del gruppo, dove
protetti e protettori si aiutano a vicenda.
Jack Frost è, insomma,
l'elemento a un tempo destabilizzante (perché rompe gli schemi) e
fortificante dei mondi che la vicenda pone in essere. Il film è quindi costruito interamente dal suo punto di vista, e la sua storia
aderisce naturalmente alla prospettiva cara a Del Toro, al regista
Peter Ramsey e a William Joyce, figura eclettica, animatore e autore
dei romanzi di partenza, che si ritaglia il ruolo del Michael Ende
della situazione.
Il risultato finale è
uno dei cartoon del decennio, che recupera la forza dell'innocenza in
una struttura apparentemente semplice, ma in realtà complessa e
matura: un perfetto film di Natale.
Le 5 leggende
(Rise of the
Guardians)
Regia: Peter Ramsey
Sceneggiatura: David
Lindsey-Abaire (ispirato a I guardiani dell'infanzia
di William Joyce e al cortometraggio The Man in the Moon, dello
stesso autore)
venerdì 7 dicembre 2012
Amour
Amour
Georges e Anne sono
due professori di musica in pensione: dopo una vita di lavoro, sempre
fianco a fianco, raccolgono le loro soddisfazioni vedendo gli allievi
di un tempo muovere i primi passi sulla grande scena musicale. Un
giorno, però, Anne inizia a manifestare i primi sintomi di una
malattia degenerativa. Sottoposta a intervento, resta paralizzata
nella parte destra del corpo e Georges si fa carico di aiutarla a
combattere il suo male, cercando di gravare il meno possibile
sull'aiuto di terzi e della figlia Eve.
Palma d'Oro al Festival
di Cannes 2012, Amour arriva nelle sale italiane sull'onda
lunga delle polemiche che sempre accompagnano l'opera di Michael
Haneke, cineasta controverso e disturbante, spesso accusato di
eccessiva freddezza e di un atteggiamento ostinatamente crudele nei
confronti dei suoi personaggi. Il tema della malattia che affligge un
personaggio anziano - di per sé già delicato - offre naturalmente
il fianco alle peggiori accuse che, però, si rivelano in gran parte
pregiudiziali.
Il punto di vista
prediletto dal regista, asciutto e apparentemente distaccato, si
rivela infatti propedeutico a una trattazione rigorosa del dramma:
accusare Amour di compiacimento nella crudele esibizione del
corpo semiparalizzato di Anne/Emmanuelle Riva significa onestamente
non avere bene in mente la portata dei pietismi che connotano
tanto cinema recente, dai quali il regista austriaco si dimostra
lontanissimo. Al contrario, la regia si pone sempre un passo indietro
rispetto alla potenza espressiva (e iconica) dei volti di Jean-Louis
Trintignant e Emmanuelle Riva, letteralmente meravigliosi nella
naturalezza con cui tratteggiano questa coppia di anziani compagni di
vita, alle prese con la loro ora più oscura.
Ciò che colpisce è come
Haneke ponga la prospettiva del suo racconto sulla lunghezza d'onda
dei personaggi anziani: il torto che, cioè, spesso si commette con
storie simili è quello di raccontare il dramma della malattia in
modo da impressionare lo spettatore sano (o al limite per compiacere
chi ha avuto la sventura di vivere un'esperienza simile). Niente di
tutto questo: Amour non è il racconto di una malattia che
distrugge, ma al contrario l'espressione di un'esperienza che
qualifica due personaggi, descrivendo un loro universo. Non a caso,
il racconto glissa sui passaggi salienti del decorso del male,
affidandoli a scarni dialoghi, e preferisce puntare più che altro su
episodi singoli, quelli che più interessano ai fini del suo
discorso.
La malattia, infatti,
tende naturalmente a “escludere” gli altri da sé: è esemplare
in tal senso il personaggio della figlia Eve, che non riesce a
comunicare con la madre perché la paralisi le impedisce di formulare
compiutamente le parole (ancora una volta la parola nel film è un
inutile orpello). Eve, in quanto personaggio “giovane” (e dunque
escluso dalla prospettiva cara al film), vive l'esperienza con
un'emotività che lascia trapelare più il proprio senso di impotenza
che la reale comprensione di quanto sta passando sua madre. Lo stesso
potrebbe valere anche per il giovane Alexandre, ex allievo di Anne,
verosimilmente a disagio di fronte al destino della sua insegnante.
Bisogna inoltre aggiungere
il fatto che Anne tenda naturalmente a isolarsi, a rifiutare il
contatto con gli altri, a non accettare visite, a non volere che
qualcuno la veda, fino al traguardo estremo di non riconoscersi in
quel corpo lesionato dal male, che la porta a rifiutare il cibo.
Haneke è sincero nella descrizione quotidiana del dramma: la
malattia è brutta, umiliante (la dolorosa scena del bagno) e,
soprattutto, disarmante nel suo coglierti nei momenti più intimi e
semplici del giorno (la paralisi durante la colazione) e nel suo
essere alimentata dai perversi giochi del destino (l'operazione che
finisce per peggiorare la situazione). Dall'orizzonte descritto dal
male, però, non viene escluso George, l'unico che segue Anne con una
dedizione e una dignità disarmanti, al pari dello stesso male,
perché generosa e inevitabile.
L'uomo è infatti l'unico che riesce sempre a comunicare con lei, in virtù di un territorio comune che i due hanno descritto e che si fonda sui ricordi (la visione delle foto), sulle esperienze vissute insieme (i racconti del passato con cui lui fa luce anche su fatti che lei non conosceva), sul divertimento provato (le rievocazioni degli accadimenti più buffi) e sull'amore per la musica (la splendida scena in cui i due cantano insieme). In questi momenti appare chiaro come la malattia descriva uno spazio sì limitato, ma che non riesce e non può mai escludere l'amore del e per il compagno. Un amore, che, come ha sottolineato giustamente Emmanuelle Riva (l'intervista è linkata in calce) “non viene mai dichiarata a parole. Perciò, siamo davanti ad una vicenda in cui c’è il verbo che diventa carne”. Si ribadisce in questo modo come il lavoro registico compiuto da Haneke sia stato intelligentemente in levare, con la storia che si affida ai gesti e alla fisicità dei suoi straordinari interpreti.
L'uomo è infatti l'unico che riesce sempre a comunicare con lei, in virtù di un territorio comune che i due hanno descritto e che si fonda sui ricordi (la visione delle foto), sulle esperienze vissute insieme (i racconti del passato con cui lui fa luce anche su fatti che lei non conosceva), sul divertimento provato (le rievocazioni degli accadimenti più buffi) e sull'amore per la musica (la splendida scena in cui i due cantano insieme). In questi momenti appare chiaro come la malattia descriva uno spazio sì limitato, ma che non riesce e non può mai escludere l'amore del e per il compagno. Un amore, che, come ha sottolineato giustamente Emmanuelle Riva (l'intervista è linkata in calce) “non viene mai dichiarata a parole. Perciò, siamo davanti ad una vicenda in cui c’è il verbo che diventa carne”. Si ribadisce in questo modo come il lavoro registico compiuto da Haneke sia stato intelligentemente in levare, con la storia che si affida ai gesti e alla fisicità dei suoi straordinari interpreti.
Così, il gesto estremo
cui George viene condotto dalla straziante esperienza, diventa anche
un momento di comprensione del dramma altrui, attraverso il quale
l'uomo rimarca la sua condivisione del male e il suo farsene in
qualche modo carico. Haneke esagera con il simbolismo nella scena del
piccione che viene anch'esso “imprigionato” e poi liberato, ma il
finale è da brividi, con i due che riprendono la loro vita
quotidiana: un sogno? Una speranza? O forse - è la lettura che trovo
più pertinente - una riunione fra i due, in una vita che ormai è
soltanto loro, mentre agli altri la casa appare semplicemente vuota.
Fa venire in mente certe soluzioni di Marco Bellocchio, e scusate se
è poco.
Amour
(id.)
Regia e sceneggiatura:
Michael Haneke
Origine: Francia, 2012
Durata: 125'
mercoledì 5 dicembre 2012
Torino 30: Happy End
Torino 30: Happy End
Alla fine degli anni Novanta, il Torino Film Festival si era conquistato sul campo la palma di miglior festival d'Italia. Articoli di giornale celebravano la proposta qualitativa dei suoi programmi ritenendola superiore a quella di Venezia e magnificavano le scoperte e le rivalutazioni di autori spesso erroneamente considerati “minori”. Fast-forward: è l'1 dicembre 2012 e, durante la premiazione finale, il sindaco di Torino, Piero Fassino, ribadisce che il Torino Film Festival non è una manifestazione “da red carpet”, ma un appuntamento che punta alla qualità della proposta. Alla luce dei presupposti sopra elencati potrebbe apparire una considerazione quasi lapalissiana, ma smette immediatamente di esserlo se si considera quello che è accaduto nei circa quindici anni che descrivono questo intervallo: il mercato si è saturato di offerte festivaliere, ha prevalso la logica perversa della prima mondiale e dei grandi nomi “a tutti i costi”, mentre la politica ha messo il naso dove non doveva, rischiando di scardinare il sistema. Il fatto quindi che sia un politico, oggi, a ribadire la stabilità della formula torinese è un segnale importante, pur nella consapevolezza di quanto aleatorie e contraddittorie, spesso, siano le parole di chi indossa le insegne istituzionali.
Il trentesimo Torino Film
Festival, in perfetta continuità con quanto sinora enunciato, è
stato dunque l'elemento certo in un panorama sempre più caotico, il
classico appuntamento che, alle critiche, ha opposto “cristianamente
un altro film”, per dirla alla Lucio Fulci, continuando a cercare e
a scavare mentre intorno fioccavano le chiacchiere e le polemiche più
o meno pretestuose (e nel mucchio ci va anche quella innescata da Ken
Loach e subito abbracciata dai “barricaderos” della Rete,
nonostante l'evidentissimo errore di comunicazione compiuto dal
regista inglese). Mi piace questa idea di uno spazio che crede ancora
“possibile” parlare di cinema per ciò che esso vuole dirci, crea
l'illusione di un tempo e di un luogo maturo e concreto, dove la
presenza di madrine d'eccezione come Claudia Gerini o Ambra Angiolini
non diventa l'elemento catalizzatore, ma ciò che dovrebbe sempre
essere: uno dei tanti elementi propedeutici alla fruizione e al
funzionamento della manifestazione nel suo complesso.
In virtù di tutto
questo, il finale dell'epoca Gianni Amelio ha mostrato la voglia di
lasciare qualcosa, diciamo pure una pesante eredità per chi verrà
dopo: non è stato un “finale col botto”, né la migliore
edizione dell'ultimo lustro, ma un festival sicuramente solido, che è
quanto più dovrebbe interessare, più della costante (e snervante)
ricerca del capolavoro a tutti i costi - pratica, sia detto, alquanto
infantile e figlia di una cinefilia bulimica e incapace di valutare
con serenità la bontà dell'offerta media. Nell'articolo
di presentazione scrivevo che mi aspettavo delle sorprese
e queste non sono mancate: è ancora presto per valutare l'impatto
che avranno sul cinema registi come il vincitore James Marsh, il
Mikael Marcimain di Call Girl
o il Kamal K.M. di I.D. (solo per limitarmi ai titoli
in Concorso). No, ciò che più mi ha coinvolto è stata la forza e
la coerenza dei percorsi tematici che hanno descritto un festival
capace di stare a metà fra l'analisi della storia recente (con la
sua indagine a tutto tondo sulle zone oscure degli Anni Settanta),
l'alienazione del contemporaneo (protagonista nella sezione Concorso)
e il gioco prezioso di ossessioni/fobie e derive dell'immaginario
oscuro di Rapporto Confidenziale, senza dimenticare l'autentico
divertimento di un'offerta molto varia. Uno sguardo a 360° che,
all'uscita dalla sala, hanno lasciato il pubblico con la percezione
abbastanza netta delle direzioni perseguite dal cinema in questo
momento.
Tutto si riflette in
questa struttura rigidamente porosa, dove ogni spazio
intrattiene una dialettica con gli altri: la ricerca di Onde, sezione
dedicata al cinema di ricerca, ad esempio, sta a metà fra la
sperimentazione radicale di pellicole come Invisible e la
qualità anche schiettamente popolare (pur nelle sue sperimentazioni
linguistiche) di titoli come Le gouffres e Tabù di
Miguel Gomes. Allo stesso tempo, Festa Mobile è tanto un canonico
“fuori concorso” quanto un'appendice delle sezioni retrospettive,
con la riproposta di classici come Viaggio in Italia. Ecco, se
lo vedi dall'esterno il festival a prima vista ti appare magmatico,
quasi incoerente, poi lo studio del programma rivela una
pianificazione capace di descrivere aree ben precise, ma lasciando
sempre occasioni di smarginamento, perché non si può chiedere al
cinema di essere cartesiano quando le pulsioni spesso sono
prettamente emotive.
Quest'anno, peraltro, la
prima impressione era anche quella di un festival con qualche
sbavatura a livello organizzativo: le lunghe code dei giorni iniziali
non sono state provocate soltanto dall'aumento di pubblico (intorno
al 20%, alla faccia della crisi), ma anche da alcune carenze
logistiche. Eppure alla fine tutto è rientrato nei ranghi, il
sistema si è riassestato in fretta e, almeno per quanto mi riguarda,
non sono mai rimasto fuori dalla sala, anche quando la fila iniziava
a parecchi metri di distanza.
Un'edizione-bilancio,
insomma, consapevole del passato che ormai avvolge il marchio “TFF”
e con un'eredità che deve andare avanti. Scherzosamente verrebbe da
fare un paragone con Skyfall, l'ultimo film di James Bond,
ricco e composito, ma con lo sguardo sempre saldamente ancorato alla
tradizione. E mi consola apprendere, da fonti interne, che una delle
idee dello staff - poi purtroppo scartate - riguardava anche un
possibile omaggio a 007: sarebbe stata una divertente quadratura del
cerchio!
domenica 2 dicembre 2012
Torino 30+9 (+1)
Torino 30+9 (+1)
Come una partita che
giunge ai tempi supplementari, la domenica permette spesso di
recuperare i titoli che si sono perduti durante i 9 giorni di
programmazione del Torino Film Festival (che dall'esterno possono sembrare molti, ma in
rapporto alle tante pellicole passate sugli schermi bastano a
malapena a coprire una bassa percentuale dell'offerta). Quest'anno,
il Cinema Massimo ha dedicato la giornata a riproporre i film
premiati, e l'occasione si è rivelata quella giusta per vedere
Shell, di Scott Graham, vincitore, per l'appunto, della
categoria principale, ovvero il Concorso Lungometraggi.
L'opera batte bandiera
scozzese e si ambienta non a caso nello splendido paesaggio delle
Highlands, che l'occhio di Graham riprende con particolare gusto,
lasciando trasparire la forza imponente nota a chiunque abbia mai
avuto a che fare con quei luoghi, senza però dimenticare quella
qualità un po' aliena e ieratica, tipica di un angolo di mondo che
sembra fare storia a sé. Qui vive
Shell, una ragazza che, insieme al padre Pete, gestisce una pompa di
benzina in mezzo al nulla. Le sue giornate trascorrono fra clienti
talmente sporadici da esserle ormai familiari e un rapporto con il
genitore che più volte sembra sfiorare la morbosità. Sebbene la
possibilità dell'incesto venga esplicitata soltanto nel finale, per
quasi tutta la sua durata il film suggerisce più che altro una
condizione di immobilismo temporale che “blocca” la ragazza in
una condizione infantile, come una bambina in un corpo di adulta e
che perciò la spinge a cercare gesti d'affetto spontanei o a nascondersi nel letto
paterno in cerca di calore, quando la caldaia si rompe. Il nome
Shell, infatti, rimanda tanto a una nota marca di benzina (e quindi
definisce l'attività lavorativa) quanto al “guscio” nel quale il
personaggio è prigioniero, e che si lega al paesaggio immutabile
delle Highlands. Sentimenti ambivalenti e opposti, che più di tutto
sono sintetizzati dalla splendida figura della protagonista Chloe
Pirrie, in grado di unire un'aria quasi impermeabile agli stimoli esterni, a
una capacità di risultare estremamente desiderabile nella sua
vulnerabilità. Un film di luoghi e di corpi, dunque, che affascina
la mente più che appassionare il cuore, complice una struttura
narrativa esilissima, tanto da far sorgere a tratti il sospetto di
una pellicola abbastanza “facile” nella sua composizione e nella
sua ricercata lentezza. Amata dalla giuria (che l'ha premiata
all'unanimità) e dal pubblico, la si ricorderà comunque per il
rumore costante del vento e quella ricerca del calore che,
nell'ultimo cortocircuito sensoriale generato dal festival, si
sovrappone alle temperature bassissime che da poco hanno iniziato a
flagellare il capoluogo piemontese. Come realtà e finzione (e quindi
vita e cinema), che ancora una volta si mescolano a formare un
tutt'uno.
I resoconti giornalieri
terminano qui, fra un paio di giorni – a mente più fredda – ci
sarà un'ultima riflessione generale sul festival, mentre nelle
prossime settimane il Nido dedicherà degli appuntamenti specifici ai titoli più interessanti.
Torino 30+9
Torino 30+9
Ultimi fuochi del Torino
Film Festival, che si congeda dal suo pubblico (numerosissimo) con
uno dei titoli più attesi della sezione Festa Mobile, Anna Karenina, di Joe Wright, scritto da Tom Stoppard e che può contare su un cast davvero
notevole. Accanto a Keira Knightley (Anna) troviamo infatti un ottimo
Jude Law (il marito tradito) e il sempre più sorprendente Aaron
Johnson, che ne ha fatta di strada dai tempi dell'adolescente sfigato
di Kick-Ass. La messinscena sontuosa (e vagamente à la Baz
Luhrmann, ma evitiamo confronti troppo stringenti) rinfaccia spesso
allo spettatore l'idea del proscenio, o del palco teatrale su cui si
consumano le azioni, in un andirivieni di ricostruzione storica e
sfarzo scenografico. Il tutto esalta la natura barocca di una Russia
imperiale evidentemente percepita come una sorta di universo
autosufficiente nella sua finzione. In effetti, la storia di Anna e
Aleksej, amanti adulteri in una nazione dove il “rispetto delle
regole” (sociali e familiari) è considerato più importante della
stessa legge, diventa più che altro il pretesto per mettere in scena
un conflitto tra la pulsione irrazionale dei sentimenti e la rigidità
schematica di una logica che pretende di governare il mondo. Come
spesso accade, però, la struttura così apparentemente libera
risulta soffocata dalla natura colossale della messinscena: per
questo, alla fine spiccano soprattutto i personaggi minori, capaci di
far vibrare la struttura narrativa più degli stessi protagonisti.
Se il cinema mainstream
non ride, al contrario quello indipendente si dimostra estremamente
capace di interessare e divertire: la sezione Rapporto Confidenziale,
infatti, ci porta Thanks for Sharing, di Stuart Blumberg, già
sceneggiatore dell'ottimo I ragazzi stanno bene. Abbiamo già
visto passare in questo spazio altre pellicole dedicate alle
ossessioni della contemporaneità. Stavolta tocca alla dipendenza
sessuale, che affligge il sempre grande Mark Ruffalo e i suoi
compagni di sedute in puro stile Alcolisti Anonimi. Viene spontaneo
fare il confronto con il più noto Shame, ma significherebbe
far passare al povero Blumberg (qui al suo primo lungometraggio) un
brutto quarto d'ora, vista la superiorità tecnica della pellicola di
Steve McQueen. Sul piano della scrittura, però, Thanks for
Sharing vince la partita, grazie a dialoghi straordinariamente
briosi, divertenti e pieni di citazioni pop, e a una struttura
narrativa che, nel passaggio dai toni della commedia a quelli del
dramma, centra l'argomento con maggiore pertinenza, aprendo davvero
uno squarcio su questa patologia. Da segnalare una Gwyneth Paltrow
straordinariamente sexy e, in un piccolo ruolo, la celebre cantante
Pink, la cui presenza dovrebbe (si spera) assicurare visibilità alla
pellicola quando sarà distribuita dalle nostre parti (con il titolo
Tentazioni irresistibili).
Tornando poi alla sezione
Festa Mobile, si cambia del tutto latitudine (e tipologia di film)
con il francese L'étoile du jour, di Sophie Blondy, storia di
una piccola compagnia circense squassata da gelosie che sfociano in
tentativi di omicidio e tradimenti. Anche qui il cast è
significativo, per i volti che riflettono varie realtà del cinema
francese: si va infatti da Beatrice Dalle (purtroppo ormai sfatta e
irriconoscibile) al bessoniano Tcheky Karyo, al Denis Lavant visto
anche in Holy Motors di Leos Carax, fino alla dolce Natasha
Regnier, che rimanda al cinema di Eugène Green, grande protagonista
dell'edizione 2011 del festival. Su tutto un'anomala “coscienza”
che ha le fattezze rock del mitico Iggy Pop, qui in inedita versione
“angelica” e di bianco vestita. Il film è una malinconica
ballata attraversata da sequenze oniriche effettivamente vicine a
Carax e in grado di rendere ancora più affascinante un'operazione
raffinata e visivamente molto intrigante, in cui i sentimenti più forti si stemperano in un'atmosfera decadente e surreale.
Chiusura affidata infine
a Sally Potter, con il suo Ginger & Rosa (sempre Festa Mobile, ma avrebbe meritato il Concorso): è la storia di
due giovani nate nel giorno del bombardamento di Hiroshima e che vivono
la loro adolescenza durante la crisi dei missili di Cuba del 1962. Il
contesto storico disegna uno scenario senza futuro, che si riflette
nella frantumazione del microcosmo di Ginger (autentica protagonista,
interpretata dalla sempre ottima Elle Fanning): suo padre infatti
tradisce la madre con Rosa, determinando in tal modo la fine sia
della famiglia che dell'amicizia fra le due ragazze. A colpire,
comunque, non è tanto il dramma intenso e “bergmaniano”, che
chiama in causa i conflitti edipico-familiari, quanto il fatto che
tutto sia traslato sui valori che muovono i personaggi e che
finiscono per essere svuotati di senso. L'attivismo di Ginger (che
vuole protestare contro la possibile Terza Guerra Mondiale provocata
dalla crisi dei missili) diventa infatti un mero surrogato della
mancanza di punti fermi nella vita quotidiana; e i ragionamenti
anticonformisti e filosofici del padre risultano soltanto un modo per
mascherare le sue mancanze di uomo e genitore. In questo modo si crea
una risonanza fra i vari livelli del film (umano, familiare, sociale
e storico), tutti accomunati dal tema della disgregazione, che
rendono la pellicola intensa e potente. Ottimo ancora una volta il
cast, con ruoli minori per Oliver Platt e Annette Bening, come a
ricordarci che, pur nella differenza qualitativa delle proposte,
questa ultima giornata ci consegna un festival di splendidi volti,
capaci di disegnare bellissimi personaggi.
Thanks
for Sharing - trailer
L'étoile
du jour - trailer
sabato 1 dicembre 2012
Torino 30+8
Torino 30+8
Dopo una fisiologica
flessione nella parte centrale della settimana, l'arrivo del weekend
riporta il pubblico nelle sale torinesi: ad accoglierlo ci sono
storie intime su scenari di ampio respiro, spesso mozzafiato o
intrisi dei destini della Grande Storia. Si parte dall'India, da dove
arriva I.D., di Kamal K.M. (in Concorso). Un uomo muore mentre
sta tinteggiando le pareti di un appartamento. L'inquilina cerca in
tutti i modi di conoscere l'identità dell'operaio, che fa parte dei
lavoratori a giornata e che (forse) proviene dagli slum, una delle
zone più povere del paese. Il viaggio della donna è l'occasione per
un'immersione dal sapore prima kafkiano e poi via via sempre più
ipnotico in una realtà multiforme: lo scenario tentacolare di Mumbai
si trasforma ben presto in un paesaggio apocalittico, raccontato con
sguardo curioso e tocchi di malinconia che rendono il tutto quasi magico. Ma, soprattutto, spicca una miscellanea di
suoni che trovano il loro apice nel linguaggio, un mix di indiano e
inglese, in grado di creare un effetto piacevolmente straniante.
Anche la sezione Rapporto
Confidenziale flirta con l'idea dell'apocalisse: lo fa con Fin/The
End, primo lungometraggio dello spagnolo Jorge Torregrossa, in
cui un gruppo di ex studenti si ritrova per una rimpatriata a quasi
vent'anni dalla loro ultima volta insieme. Fra loro scorrono tensioni che
affondano nelle vicende del passato, ma l'aspetto più particolare
è che strani fenomeni atmosferici stanno precipitando il mondo verso il
baratro. Le persone spariscono tutte all'improvviso e lentamente
anche il gruppo inizia a perdere pezzi. Il confronto con le
esperienze passate si rispecchia in un mondo senza futuro, in cui il
regista riflette – anche in questo caso – tanto un distorto
ideale di bellezza (il film ha a suo modo una caratura poetica)
quanto un angosciante monito a un'umanità che non è stata capace di
seminare nulla di virtuoso. Se l'impianto sembra strizzare l'occhio a serie come Ai confini delal realtà, alcuni passaggi del finale rimandano alle
cose
migliori di Narciso Ibanez Serrador, dove il fantastico è sempre lasciato sullo sfondo di un racconto dalla forte caratura umana. Nel cast
ritroviamo la splendida Maribel Verdù che già
si è fatta notare in Blancanieves
(peraltro è presente anche in una terza pellicola, Como
estrellas fugaces).
La risposta più vitale
della giornata si ritrova negli spazi angusti di un polmone
d'acciaio, quello in cui è rinchiuso il protagonista di The Sessions
(sezione Festa Mobile), dell'ex regista televisivo Ben Lewin.
Prendendo ispirazione da una storia vera, Lewin racconta
l'iniziazione sessuale di un uomo paralizzato dalla poliomelite e che
viene educato alla scoperta del proprio corpo da Cheryl (la sempre
bravissima Helen Hunt), una partner surrogata. I presupposti per un
film patetico o afflitto da forzata “carineria” c'erano tutti,
ma, anche se la struttura narrativa non si discosta molto dai canoni
di certi racconti americani contemporanei, stupisce la levità con
cui un argomento pure così spinoso viene trattato. Merito di attori
perfettamente in parte, fra cui svetta uno strepitoso William H.
Macy, prete dalla visione liberale, che bypassa splendidamente le
fobie sessuofobiche del cattolicesimo. Ne viene fuori un film
toccante, in cui – per una volta – il sesso non è
materia per umorismi pruriginosi (sebbene il tutto sia anche
divertente), ma un elemento necessario per la conoscenza di se
stessi, uno di quegli fattori che rendono la vita complessa e
affascinante.
D'altra parte, che il
mondo sia un posto difficile, arriva a ricordacelo Shadow Dancer
(ancora Festa Mobile), di James Marsh, che ci fa tornare ai
conflitti in Irlanda del Nord, attraverso la vicenda di un'attivista
dell'IRA costretta a collaborare con i servizi segreti britannici e a
rivelare i traffici in cui sono invischiati i suoi fratelli.
Diversamente ne farebbe le spese il figlioletto. Il suo contatto con
le autorità è il redivivo Clive Owen, tenuto a bada da una
irreprensibile direttrice che ha le fattezze di Gillian Anderson, la Scully
di X-Files qui in inedita versione bionda. La materia è
ottima per il potenziale drammatico che potrebbe esprimere, fra
intrecci di potere, reminiscenze di un periodo storico difficile e
dinamiche umane e familiari che pesano sulle azioni dei personaggi. Ma, nonostante i colpi di scena finali, il risultato
è debole e poco incisivo, e trasmette il sapore di un'occasione sprecata. Idealmente lo si può comunque ricollegare alle atmosfere di Call Girl e di Good
Vibrations, visti nei giorni passati, con cui può
formare un'ideale trilogia a cavallo fra complotto e società allo
sbando.
venerdì 30 novembre 2012
Torino 30+7
Torino 30+7
Gli anni Settanta sono
stati il miglior decennio del XX secolo e il Torino Film Festival è
lì a ribadirlo: un periodo turbolento, magmatico, che già
presentava tutti i segni della crisi della modernità, eppure era un
fermento continuo di creatività e nuovi furori. Tre film della
settima giornata è come se sintetizzassero queste affermazioni
attraverso una trattazione a tutto campo dei “favolosi Seventies”.
Si parte con l'ottimo
Call Girl, di Mikael Marcimain (in Concorso), che racconta il clima nella
Svezia del 1976, divisa fra la lotta per la parità dei sessi (portata avanti dai
partiti progressisti) e il giro di prostituzione che arrivava ai
livelli più alti dello stato, coinvolgendo proprio i paladini dei diritti civili, smascherati nella loro solenne ipocrisia. Il tutto è raccontato
attraverso la vicenda di due minorenni, finite nel meccanismo
stritolatore a base di sesso, denaro, cocaina e tentativi delle
autorità di insabbiare tutto. Che la nazione nordica avesse i suoi
scheletri dell'armadio - in piena opposizione al ritratto edulcorato
che si è propagandato per decenni - non è una novità: basterebbe
citare i romanzi di Stieg Larsson, riferimento inevitabile anche
per la figura del detective solitario che si batte per portare il
marcio allo scoperto. La struttura si muove dunque fra una parte più
intimista e fortemente empatica nei confronti delle ragazze, e
dinamiche più spettacolari e di ampio respiro, che rendono la
progressione incalzante (memorabile lo score vagamente carpenteriano)
e il finale nichilista ancora più duro da digerire. Da
segnalare la performance della sempre magnifica Pernilla August, qui
nel ruolo della “matrigna” che tira le fila del mercato del
sesso.
Basta poi spostare lo
sguardo dall'altra parte dell'Europa per ritrovarci nell'Irlanda del
Nord scossa dalle divisioni fra cattolici e protestanti, al limite della guerra civile. In questo
scenario, un giovane idealista di nome Terri Hooley apre il suo
soprendente negozio di dischi, Good Vibrations, che è anche
il titolo del film di Lisa Barros D'Sa e Glenn Leyburn (in Festa Mobile). L'attività,
infatti, diventa la culla del movimento punk rock di Belfast, che
il film presenta come una valvola di sfogo dalle tensioni sociali
dell'epoca e come una iniezione di vitalità e divertimento in un
mondo squarciato. Good Vibrations e il piccolo mondo di Terri,
infatti, diventano un'oasi in cui le divisioni politiche vengono
superate in nome del fermento creativo portato dalla nuova tendenza
musicale. I due registi lavorano sulle dinamiche della commedia per
restituire il clima di euforia e rischiano la carta dell'eccessiva
edulcorazione (sebbene non nascondano mai il difficile scenario sociale).
Pur con i distinguo del caso si resta così affascinati dalla vicenda
e dallo splendido panorama musicale descritto. Il pubblico accoglie
con scroscianti applausi.
Dunque il fermento
culturale dei Seventies è acclarato, la disgregazione politica e
sociale anche: a completare il quadro ci pensa un classico come La
rabbia giovane di Terrence Malick, presentato nella sezione Figli e
Amanti (dove è stato scelto da Daniele Vicari e Michele Riondino) e
che appare in perfetta continuità con il discorso sin qui seguito.
La vicenda dei due ribelli senza causa Kit e Holly mostra infatti già
tutti i segni del percorso d'autore di Malick, ma con un forte
precipitato politico per come le imprese assassine dei due riflettono
i disordini umani, materiali e sociali dei Seventies. Il decennio, in fondo, è tutto qui: nella tenerezza dei due amanti, nel romanticismo di un viaggio che è anche un recupero del rapporto con la natura in opposizione alla città, negli scenari mozzafiato delle Badlands e nella violenza immotivata e senza scampo dei giovani in fuga senza una meta. Un film a suo modo necessario e definitivo.
Si chiude con un progetto
del tutto diverso e fuori da ogni possibile collocazione temporale:
la sezione Onde ci porta infatti Invisible, di Victor Iriarte,
racconto di un film di vampiri che... non esiste. La storia è
infatti illustrata attraverso sintetiche didascalie su fondo nero,
suoni, frammenti di dialogo e, in parallelo, le prove in sala di
registrazione di Maite Arroitajuaregi, intenta a creare la colonna
sonora con l'ausilio di incredibili performance vocali e vari
strumenti. Dunque allo stesso tempo un'operazione che mette lo
spettatore nella condizione di dover immaginare un film letteralmente
invisibile, unita al processo creativo dell'unica componente non
visiva della pellicola: la banda sonora. Un esperimento pertanto
radicale, ma anche immaginifico e poetico, con cui risulta
interessante confrontarsi.
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La rabbia giovane - trailer
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giovedì 29 novembre 2012
Torino 30+6
Torino 30+6
Con la pioggia che
continua a flagellare le strade, chiudersi al caldo nel cinema è decisamente la soluzione migliore, una sorta di grosso incentivo a
non badare all'inevitabile stanchezza, dopo sei giorni di intense
visioni. La nuova giornata del Torino Film Festival è stata all'insegna delle
sperimentazioni e per questo ha visto in prima fila le proposte dalla
sezione Onde, l'angolo dedicato alle opere
di ricerca, curato da Massimo Causo con la collaborazione di Roberto
Manassero.
La prima cartuccia
sparata in apertura di giornata è il bel film francese Les
gouffres (ovvero “Le voragini”), scritto e diretto da Antoine
Barraud, nel quale è possibile ritrovare subito quegli smarrimenti e
quelle “fughe e discese” evocate dai selezionatori nelle note di
introduzione alla sezione. Protagonista è infatti una donna che, in
una non meglio precisata zona del Sudamerica, attende il ritorno del
marito, apparentemente disperso dopo essersi recato a esplorare delle
voragini scoperte di recente. Lo smarrimento diventa tanto sensoriale
quanto panico ed elementale (tanto da far azzardare paragoni con il
cinema del primo Peter Weir): il viaggio della donna nelle voragini
del titolo è quindi sia reale che metaforico, e dona al film la
caratura di horror metafisico, tutto giocato sull'asprezza degli
ambienti, i corpi degli indigeni che sembrano abitare le cavità e un
uso espressivo delle sfocature che restituiscono lo sfasamento
percettivo dell'esperienza. Al film (di soli 65 minuti) è accostato
il bel corto portoghese Os vivos tambem choram (“Anche i
vivi piangono”), in cui un portuale di Lisbona sogna di fuggire in
Svezia. Ci riuscirà? Anche in questo caso il viaggio si carica di
slanci onirici, che ci restituiscono un bell'esempio di cinema libero
e vitale. Una piccola folgorazione.
Restiamo sempre in
Portogallo e facciamo un salto alla proiezione serale, che ha visto
(sempre nell'ambito di Onde) protagonista Miguel Gomes, omaggiato da
una personale, inaugurata da Tabu, suo ultimo lungometraggio
già presentato a Berlino. Una sperimentazione sui codici espressivi
del muto (immagine in bianco e nero, formato 4/3, dialoghi spesso sostituiti dalla sola voce narrante) per una storia
densa e in bilico fra passato e presente. La struttura narrativa è
infatti scissa in due storie ben distinte, che solo a un certo punto
si capiranno essere collegate, e formano una tenera storia d'amore
raccontata con i codici dell'avventura e financo del feulleiton. Ne
viene fuori un film mosaico, composito pur nella sua apparente
compostezza, e per questo molto interessante.
Cambiando completamente
sezione, continuiamo però il viaggio nei film che rielaborano
l'estetica del cinema muto con Blancanieves, fra le pellicole
più apprezzate di questa edizione (la sezione è Festa Mobile,
mentre il regista è Pablo Berger). Come si può intuire dal titolo,
è la favola di Biancaneve, riveduta e corretta in salsa spagnola,
tanto che stavolta il padre della fanciulla è un torero, così come
i nani... e infine anche la stessa Biancaneve sfiderà il toro
nell'arena per riannodare i fili di una vita messa in crisi dalla
perfida matrigna - una strepitosa e magnetica Maribel Verdù che
cattura fin dal nome: Encarna! Come lo stesso regista ha dichiarato,
il progetto è di lunga data, ma si è potuto metterlo in piedi solo
dopo il successo di The Artist, con cui presenta delle
analogie. Ancor più dopo averlo visto in sequenza rispetto al
rigoroso Tabù emerge infatti una certa tendenza alla
“carineria” e all'esercizio di stile abbastanza fine a se stesso.
Ad ogni modo, considerando la filiazione fiabesca, si può anche
soprassedere rispetto a queste perplessità e constatare come la
storia si segua comunque con piacere grazie a un ritmo brioso e a una
messinscena elegante e priva di flessioni.
In questo percorso non
cronologico, si arriva in fondo con le due pellicole dell'immancabile
sezione Rapporto Confidenziale, dedicata a ossessioni e fobie. Nel
primo caso abbiamo Smashed, di James Ponsoldt, che racconta il
dramma dell'alcolismo. La prospettiva però presenta una novità: il
punto non è mostrare (come al solito) il decadimento fisico
dell'attrice di turno - nel caso specifico Mary Elizabeth Winstead,
finalmente in un ruolo decente dopo tanti film inutili; al contrario,
il punto sta nel mostrare la ricaduta della scelta di smettere di
bere sull'ambiente circostante, sugli amici e i genitori che non
capiscono e, paradossalmente, remano contro. In virtù di questa
scelta il film si dimostra soprattutto la storia di una scoperta del
proprio microcosmo e della propria identità dopo anni di “sballo”
e di vita inerziale: va aggiunto, però, che l'impianto segue in
maniera abbastanza puntuale i canoni del film “indie” americano,
in un continuo andirivieni di ironia e serietà, personaggi tipizzati
e una certa verbosità. Da vedere sapendo a cosa si va incontro.
Sul versante delle fobie
invece c'è un'altra piccola folgorazione del festival,
l'anglo-irlandese Citadel, di Ciaran Foy, in cui il giovane
Tommy è perseguitato da misteriose figure che, dopo avergli ucciso
la moglie, ora attentano alla vita della figlioletta. Sono esseri
attratti dalla paura e per affrontarli Tommy dovrà imparare a
convivere con il terrore che ormai connota la sua vita. Ad aiutarlo
(forse) ci saranno un prete dai modi spicci e un bambino cieco. Al di
là della “mitologia” che il racconto mette in piedi (e che
presenta alcune incongruenze), il film ritrae molto bene il senso di
annichilimento del protagonista e, nella parte finale, crea
un'atmosfera da incubo carica di grande tensione, nonostante le
evidenti ristrettezze del budget. Speriamo in una distribuzione
italiana!
Os vivos tambem choram - trailer
Tabu - trailer
Blancanieves - teaser trailer
Smashed - trailer
Citadel - trailer
Os vivos tambem choram - trailer
Tabu - trailer
Blancanieves - teaser trailer
Smashed - trailer
Citadel - trailer
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