"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

giovedì 5 maggio 2011

La scomparsa di Osamu Dezaki

La scomparsa di Osamu Dezaki

Un grosso malinteso ha da tempo relegato alcune fra le più significative serie animate di sempre - e il nome di Osamu Dezaki - nel calderone dei prodotti di massa, preferibilmente infantili, magari da ossequiare più che altro per ragioni nostalgiche, piuttosto che strettamente qualitative. Ora che il regista è scomparso, sarebbe bello che l'equivoco fosse risolto, e si iniziasse a guardare alla sua opera al di là della stretta cerchia dei cultori (di animazione o del passato), tributandogli il rispetto e l'importanza che spettano ai veri pionieri.

Che il passatismo non sia infatti il criterio giusto per affrontare il corpus d'opera di Osamu Dezaki è testimoniato dalle parole del regista stesso, che in più occasioni aveva dichiarato di guardare sempre avanti, alla ricerca di nuove formule espressive, lontano com'era da quell'autoreferenzialità che pure riesce a esistere in un ambito fecondo e sperimentale come quello dell'animazione giapponese. Non è un caso se opere come Remì e Lady Oscar, una volta sfrondate della più sterile componente nostalgica, risaltano in particolare come lavori adulti e di grande ricerca formale, attraverso invenzioni destinate poi a diventare standard, ma che ancora oggi colpiscono per la loro freschezza. Mi riferisco all'uso straordinariamente espressivo del colore, dei fondali e dei dettagli. Basti pensare che una delle principali novità introdotte da Dezaki a partire dalla diciannovesima puntata di Lady Oscar (dove subentrò al collega Tadao Nagahama) è quell'anomalo personaggio del mendicante con una gamba di legno che, brandendo una fisarmonica, riesce a ritagliarsi uno spazio significativo come voce critica dell'universo narrativo, sottolineando ed esplicitando il sottotesto tragico che l'ispirata regia da lì a poco lascerà deflagrare in tutta la sua devastante potenza. Sono questi tocchi di classe a marcare la differenza fra un narratore e un semplice artigiano interessato unicamente alla trasposizione di un manga di successo.

Stabilita dunque la necessaria distanza fra la semplice rievocazione e l'analisi dell'opera di Dezaki, stupisce notare la singolare contraddizione fra un'indole interessata a guardare avanti, e uno spirito narrativo che quasi sempre manifestava una forte inquietudine per il futuro, complice una visione pessimista che trovava nella tragedia la sua maggiore motivazione espressiva. Ci viene in soccorso quella che forse è l'opera più rappresentativa (sebbene non la più nota) dell'artista, la serie Rocky Joe. In questo caso la contraddizione è addirittura doppia, se consideriamo che il titolo originale “Ashita no Joe” tradotto recita letteralmente “Joe del domani”: vi si racconta la storia di un orfano che trova la sua ragione d'essere nella boxe. Questo struggente racconto di formazione, però, è articolato da Dezaki nel segno di una autentica condanna per il protagonista, destinato a essere portatore di morte e perciò a vedere spesso i suoi compagni e avversari cadere per mano dei suoi colpi, o comunque per circostanze legate alla sua presenza, fino all'autoannullamento del finale (sintetizzato dall'indimenticabile immagine riportata qui sotto).

Passato e futuro dunque, due opposti fra i quali Dezaki dovrebbe essere posto al centro, come cineasta del presente, capace di guardare espressivamente avanti, ma tematicamente indietro, attraverso personaggi che devono ricomporre un quadro sfaldato preventivamente: le sue storie, in effetti, hanno spesso a che fare con l'identità da ritrovare (si pensi all'ambiguità di Lady Oscar), con il ricongiungimento familiare (Remì), e forse anche per questo una delle sue invenzioni più personali è quella del fermo immagine a matita, che si contrappone alla forza cinetica impressa dai disegni dei sodali Shingo Araki, Michi Imeno e Akio Sugino. La regia, insomma, insegue l'impetuosità del movimento, ma d'un tratto la blocca, congelandola e trasfigurandola in un fermo di qualità pittorica che sembra avere un duplice scopo: fissare la significatività di un momento in cui l'emozione si sta consumando, esprimere la forza di un singolo gesto in rapporto alla complessità di un'azione più grande e osservare così la tragedia nel suo farsi. Ma, allo stesso tempo, anche riconsegnare il protagonista alla sua realtà di figura disegnata, sottraendolo a quella verosimiglianza imposta dall'animazione.

Non stupisce in questo senso notare che Dezaki in origine volesse fare il disegnatore di fumetti: in effetti, pur nella modernità estrema dei suoi artifici registici, sussiste una radicalità che è tipica del mestiere di chi traccia un tratto sul foglio. E anche per questo le sue opere riescono a essere contemporaneamente eleganti (e non prive di una certa androgina sensualità) eppure quasi brutali nella rappresentazione “sporca” della realtà.

Ancora una volta nulla di cui stupirsi: è la naturale conseguenza di un pensiero che, stante la voglia di esplorare sempre le possibilità offerte dall'animazione, per il resto guardava al cinema dal vero, alle opere di autori del reale come Vittorio De Sica e alla capacità di comporre un linguaggio di immagini che fosse universale e trasversale rispetto ai pubblici più disparati: è solo l'ennesima contraddizione di un autore capace di coniugare gli opposti e di lasciare in questo modo esprimere la complessità di una concezione artistica che pensava all'animazione come a una sintesi di stimoli differenti. Peccato che se ne sia andato così presto.


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