The Dead Walk!
L’arrivo sulle televisioni di tutto il mondo di una serie come The Walking Dead favorisce alcune riflessioni collaterali, prima di entrare nello specifico del magnifico fumetto originario e della serie stessa che, soltanto a basarsi sulla visione delle prime due puntate, già merita di essere ascritta fra i capolavori del piccolo schermo.
Che fosse un successo annunciato peraltro poteva sembrare un dato scontato ad alcuni, ma a ben vedere così non è, soprattutto nella misura in cui il mercato odierno è proiettato eccessivamente verso eventi studiati a tavolino e pertanto realizzati in modo da risultare accattivanti presso il maggior pubblico possibile. Che nel caso specifico è quello del fumetto, quello dei telefilm e, naturalmente, quello occasionale (che abbia naturalmente interesse in un serial horror). Ciò che pertanto colpisce durante la visione è la natura magnificamente autentica di un format che non cerca di essere accattivante. Non ammicca, non ironizza, non si pone in modo pedissequo rispetto alla fonte.
Quest’ultimo dato naturalmente rappresenta uno degli elementi più interessanti, e pone la serie sulla scia di quelle opere (poche) che, anziché guardare al modello con timore reverenziale, cercano di affrontarlo con giusto spirito critico, muovendo la canonica domanda: qual è il senso di ciò che sto raccontando? E’ cioè il voler semplicemente dare una consistenza realistica alle immagini che finora siamo stati abituati a vedere sulla pagina, oppure è trarre dalla fonte una lezione narrativa e contenutistica che permetta di raccontare una grande storia? Nel primo caso, naturalmente, si ottengono film come Watchmen, che rifiutano qualsivoglia confronto con il modello, visto solo come un enorme disegno da riprodurre sotto altra (e accattivante) forma. Nel secondo invece abbiamo registi come Frank Darabont (developer della serie tv) che, fattosi le ossa sulle trasposizioni da Stephen King, ridefinisce i confini della “riduzione” classicamente intesa. Le eventuali lamentele dei fans in questo senso possono essere rispedite tranquillamente al mittente e restare confinate nelle chiacchiere di poco conto (anche se va aggiunto che finora i pareri positivi sono pressoché unanimi, segno che la qualità alla fine paga per tutti!).
Il fatto che sotto il riflettore ci sia poi una storia di morti viventi crea un divertente corto circuito sensoriale, poiché, nello specifico, il fulcro di questo discorso è se rivitalizzare il racconto originale o farne una sua zombificazione, ovvero una reiterazione meccanica di gesti ed esistenze già vissute altrove. E' un discorso che si può naturalmente applicare in generale al processo di trasposizione, che nei fatti è una "rianimazione" propedeutica a una rinascita o a una zombificazione del testo originale, a seconda di quale sia il criterio adottato. The Walking Dead sembra aver scelto quello della rinascita e così facendo pare aprirci a un nuovo ricorso storico, in cui potremo finalmente vedere accantonata la coolness di chi credeva che raccontare di zombi altro non dovesse essere che mostrare gente che corre inseguita da cadaveri centometristi, e si potrà recuperare invece la cifra umana alla base del mito romeriano.
Ecco dunque che non appare casuale la scelta di attuare una deviazione dal racconto originale nella seconda puntata proprio per raccontare di alcuni superstiti barricati in un centro commerciale, in quella che è chiaramente un'eco di Zombi: è una sorta di quadratura del cerchio, dove la rielaborazione svela se stessa e il suo intento di non inventare nulla, ma di aggregarsi invece a una tradizione preesistente. La citazione stessa diventa quindi elemento attivo della narrazione, e non facile ammiccamento, e chiama anzi in causa la voglia di avere altri punti di riferimento, che si rintracciano ad esempio nel corpo iconico del grande Michael Rooker (indimenticato interprete di Henry: pioggia di sangue). Penso che nessuno si stupirebbe se a un tratto nelle strade di Atlanta vedessimo un giornale con la celebre scritta “The Dead Walk!” che apriva Il giorno degli zombi. Sarebbe una citazione sicuramente più pertinente di quella che compare nel finale del primo Resident Evil. Anderson lì pagava un tributo rispettoso che però era soltanto formale, pop, il classico pungolare lo spettatore con la punta del gomito per far capire che si sta parlando la stessa lingua. Niente di male, beninteso, come ho già scritto, ma è ovvio che qui altre sono le dinamiche pretese.
Stavolta infatti il segno è pretesto per un richiamo che guardi alla sostanza umana del racconto, come accade quando Rick Grimes osserva con tenerezza un cadavere che si trascina nell’erba di un parco e la scena si colora di un lirismo che è profondamente romeriano. In quel momento capisci che il brivido che senti correre su per la schiena non è soltanto quello dell’appassionato che si sente a proprio agio nel mondo che già conosce, ma anche quello dell’uomo che capisce l’amarezza della riflessione per una società che è implosa senza lasciare scampo.
Tutto questo pone secondariamente il problema di un progetto che nel transitare attraverso forme espressive diverse deve tenere presente la totalità degli influssi che può venire a chiamare in causa. Se Robert Kirkman ha realizzato il suo fumetto quando magari il tema era ancora relativamente fresco per il mercato cartaceo, infatti, lo stesso non può succedere portando la storia su schermo, dove l’affollamento di cadaveri ambulanti data almeno quarant’anni di storia. Certo, è lo schermo piccolo, non il grande, dove solo di recente le maglie censorie e la voglia di osare si sono allargate al punto da permetterci di affondare nel grottesco e nelle “Guts” che titolano la puntata 2. Ma è altrettanto vero che chi oggi assiste a questa vicenda probabilmente ha almeno sentito nominare Zombi, Resident Evil e compagnia bella e quindi non si può prescindere dal rischio di risultare obsoleti in partenza. L’autenticità e la capacità progettuale di ampio respiro sono dunque le uniche carte da giocare per ottenere un risultato che resista alla prova della visione.
Non è un mistero dopotutto che si sia in epoca di transmedialità e se questa pratica di lanciare una storia su più fronti ci ha insegnato qualcosa è che il gioco funziona laddove riesce a differenziare il prodotto a seconda dell’ambito in cui esso si pone. Ecco dunque che se “The Walking Dead serie tv” continuerà a mantenere gli standard alti delle prime due puntate, potrà forse essere anche una sorta di revisione critica delle vicende già vissute sulla pagina disegnata, una visione parallela su quei fatti, in grado di coniare nuove fette di immaginario, né più né meno di come ha fatto la versione cinematografica di Resident Evil rispetto a quella videoludica. Ma con una capacità di tenere il polso delle emozioni ben maggiore. E magari tutto questo fornirà nuova linfa al metodo con cui si traspongono le storie su schermo, che non sia più soltanto quello di accontentare il lato più "nerd" dei fans che vogliono unicamente rivedere le vicende già conosciute sulla carta.
Proseguiamo dunque la lettura e la visione: questa settimana esce in fumetteria per Saldapress il volume 7 del fumetto, nell’ambito di una serializzazione-stillicidio che va avanti da anni, mentre la trasmissione televisiva procede al ritmo di una puntata ogni lunedì. Ritmi lenti, ma si sa: agli zombi non piace correre.
Proseguiamo dunque la lettura e la visione: questa settimana esce in fumetteria per Saldapress il volume 7 del fumetto, nell’ambito di una serializzazione-stillicidio che va avanti da anni, mentre la trasmissione televisiva procede al ritmo di una puntata ogni lunedì. Ritmi lenti, ma si sa: agli zombi non piace correre.
2 commenti:
Ero a Roma e non ho potuto vederlo, ma adesso mi rimetto in marcia perchè non posso perdermelo!!
Ale55andra
Brava Alessandra, vedrai che non ne resterai delusa.
Naturalmente attenzione a recuperare la versione integrale della prima puntata (di 1 ora e 7 minuti), che inizialmente Fox ha trasmesso nel cut internazionale di 45 minuti.
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