"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

domenica 12 ottobre 2008

The Mist

The Mist

Dopo un forte temporale, una cittadina del Maine viene avvolta da un banco di nebbia che sembra nascondere qualcosa al suo interno. David Drayton, pittore di manifesti cinematografici, è il primo a comprendere l’entità del pericolo quando, ritrovatosi insieme ad altre persone in un supermercato, vede dei mostruosi tentacoli spuntare dalla foschia e avere ragione di un ragazzo del personale. Restare asserragliati nel supermercato sembra dunque l’unica soluzione possibile, ma le tensioni interne al gruppo rischiano di esplodere quando l’integralista religiosa Mrs. Carmody inizia lentamente a convincere gli astanti che tutto rientra in un disegno divino, per placare il quale bisogna offrire in sacrificio delle vittime. David decide quindi, insieme a un gruppo di volontari, di abbandonare il luogo e affrontare la nebbia.

Frank Darabont è un bell’esempio di regista capace di veicolare le proprie istanze in un modo che sa essere profondamente rispettoso dei modelli con i quali si confronta: non è un caso che si sia per questo guadagnato una certa fama con le trasposizioni dei romanzi di Stephen King, autore a lungo tempo ritenuto “infilmabile” a causa della particolare alchimia dei suoi testi. Il confronto con il bel racconto/romanzo breve La nebbia (contenuto nell’antologia Scheletri, pubblicata al solito da Sperling & Kupfer) ovviamente induce a tenere presente anche un altro fondamentale modello cinematografico, ovvero lo splendido Fog di John Carpenter, al quale Darabont paga un omaggio affettuoso - ma non banalmente ossequioso - nella sequenza iniziale, dove vediamo, fra i bozzetti disegnati da David Drayton, anche quello de La cosa, altro epocale capolavoro del Maestro americano.

Il rispetto per l’opera kinghiana passa invece, oltre che per una trasposizione alquanto puntuale della storia, anche attraverso un approccio antispettacolare, meno “cesellato” di quelli al quale lo stesso regista ci aveva abituato, e più immediato, attento soprattutto alla veridicità dei personaggi (fra i quali peraltro non compare nessun divo, ma volti dal sapore quotidiano, anche dimesso) e alla forza dei dialoghi. In questo modo Darabont utilizza una regia di stampo televisivo che non poggia mai sulla forza evocativa delle creature (gli effetti speciali anzi sono di caratura inferiore agli standard odierni) o delle situazioni più spettacolari: si veda ad esempio il primo attacco dei tentacoli, che non raggiunge la tensione dei serrati confronti dialogici fra le opposte fazioni.

La scelta, rischiosa per i tempi attuali dove si richiede all’horror un impatto visivo sovraccaricato e estetizzante, riporta il genere agli albori del New Horror anni Settanta e in questo senso The Mist riesce nel dimenticato obiettivo di recuperare la cifra allegorica tipica degli esempi migliori del genere, che al mero evento impresso su schermo sanno accompagnare una pungente indagine sui malesseri tipici della società contemporanea: non ci si riferisce tanto alla palese (e facile) critica del bigottismo religioso, quanto a un più generico atto d’accusa contro la stupidità umana, elevata a stato inevitabile dell’essere, a elemento proprio e connaturato alla nostra natura, che diventa quindi causa dell’implosione del mondo.

Il film in questo senso nega completamente l’ottimismo insito nell’umanesimo che pure spesso è invece perseguito dal genere fantastico, e lo fa attraverso un’ironia feroce e beffarda, che illustra come ogni scelta sia il frutto di una autentica catastrofe. La lezione romeriana è evidente, ma Darabont si tiene volutamente a distanza dal senso della pietas tipico del regista di Zombi, per affondare invece le mani in un nichilismo (certamente più vicino a quello dell’originale kinghiano) che regala al film una struttura circolare destinata a sfociare in uno dei finali più duri che si siano visti da molto tempo a questa parte, assente anche nel romanzo originale e che definisce e completa puntualmente il senso dell’opera.

La pellicola inizia quindi con un disastro e termina con un altro, chi ha causato il danno alla fine è anche chi sembra riuscire a fronteggiarlo, mentre l’eroe di turno compie la più dolorosa ed errata delle scelte. Le motivazioni non sono comunque meccaniche, ma poggiano sulla convinzione di dover rovesciare il punto di vista rispetto a ogni utopia per prendere atto del fallimento già in atto, del quale il film non è che una icastica rappresentazione. Negando quindi i concetti di “giusto” e “sbagliato”, i profughi salvati dai soldati appaiono prigionieri di guerra in un campo ormai privo di vita e la salvezza dei singoli viene affidata alla privazione della vita, in modo parallelo a quel sacrificio umano richiesto da una fede religiosa anch’essa svuotata di ogni forma di misericordia, che però sembra fornire di fatto la lettura più calzante dell’arretramento e della privazione di identità del nuovo mondo che si sta affermando dopo l’arrivo della nebbia.

L’umanità insomma trasuda un senso dello sbando tale da rendere la comunità dei protagonisti un nucleo mai coeso e sempre slabbrato, articolato in fazioni divise e dominato da un’incertezza e da una totale mancanza di comunicazione: così molte delle morti sono determinate soprattutto dalla contrapposizione ideologica fra le parti (il ragazzo che apre la saracinesca per dimostrare che non ha paura, il vicino amico/rivale Brent che si getta nella nebbia per dimostrare di non credere ai mostri). E le scelte registiche di Darabont vanno nello stesso senso, mostrando i volti spaesati dei protagonisti attraverso una serie di rapidi stacchi di montaggio e riducendo all’osso il controcampo, tanto da negare piena visibilità ai mostri se non in poche scene: il punto di vista è quello delle vittime, non sappiamo chi siano le creature e come siano organizzate (se lo sono), la nebbia rimane fino all’ultimo una minaccia impalpabile e onnipresente, che rispecchia puntualmente l’immanente senso di fine della speranza in una umanità che ha perso il suo diritto a stare al mondo.

The Mist
(id.)
Regia: Frank Darabont
Sceneggiatura: Frank Darabont, dal racconto “La nebbia” di Stephen King
Origine: Usa, 2007
Durata: 127’

Sito ufficiale italiano
Sito ufficiale americano
Sito ufficiale americano di Stephen King
Sito ufficiale italiano di Stephen King
Video intervista a Frank Darabont e Stephen King (sottotitolata)

4 commenti:

Alberto Di Felice ha detto...

Mi trovo molto d'accordo. Quel finale, poi, è davvero molto bello.

Tamcra ha detto...

Ciao Davide!
Grazie per il commento, appena ho un po' di tempo andrò a vedere "The Mist".

Ale55andra ha detto...

Il finale è la cosa migliore del film, che comunque, nonostante qualche difettuccio, è davvero molto apprezzabile.

Anonimo ha detto...

Come sai ho amato molto The Mist. Ne ho parlato bene sia sul blog sia nella mia rubrica, e a ripensarci continuo a sostenerlo... perchè il film è valido, intelligente, sospeso a mezz'aria; e quel finale mi ha scioccato davvero. Bravo Darabont, bravissimo... e bella recensione, come sempre!