Lo strano mondo di Dino De Laurentiis
E’ uno strano mondo, come ci ricordava David Lynch nel capolavoro Velluto Blu, film che Dino De Laurentiis aveva prodotto. Già, perché per anni ho fatto il torto di associare il nome del produttore italiano a film come King Kong (quello di John Guillermin) o Brivido di Stephen King e a una certa tendenza alla grandeur e al cattivo gusto tipici di quella subcultura italica che, una volta raggiunto il successo (soprattutto se all’estero) deve sempre coprirsi di ostentazione. Non che il ragionamento fosse del tutto sbagliato, per quanto oggi quei film si riguardino con molta simpatia: pensiamo anche agli estenuanti progetti su Hannibal Lecter, una autentica rincorsa al peggio! D’altronde lo diceva anche Mario Bava ai tempi di Diabolik: la De Laurentiis è come un ministero. Il che voleva dire che a volte si odia, sa essere ingiusta, ma il suo ruolo è centrale, importante e indispensabile.
Accadde però che nel 2001 L’Academy Awards volle conferire a Dino De Laurentiis l’Oscar alla carriera. Evento poi bissato dal Leone d’Oro di Venezia nel 2003. In quelle occasioni i riflettori si accesero nuovamente su di lui e favorirono considerazioni più ampie sulla sua carriera e sul suo operato, tanto che iniziarono a spuntare i titoli più significativi del suo ricco carnet e altre importanti caratteristiche: la capacità di intercettare e comprendere prima di altri il talento di registi come Michael Mann (con il magnifico Manhunter); la bravura nel cogliere il segno dei tempi attraverso pellicole di grande spessore filmico e coraggio tematico come I tre giorni del Condor e Serpico; la sapienza di non abbandonare Lynch dopo il flop di Dune, ma di confermargli la fiducia permettendogli di girare il già citato Velluto Blu; addirittura il rischio di far “risorgere” il grandissimo Michael Cimino dopo il disastro economico dei Cancelli del cielo regalandoci il bellissimo L’anno del Dragone; e poi la sagacia imprenditoriale di chi coglie i segni di un successo in divenire, capace per questo di dare vita a saghe di grande successo popolare come Halloween (De Laurentiis fu coinvolto nella produzione del secondo e del terzo capitolo) o La casa (anche qui il secondo capitolo e poi il mitico L’armata delle tenebre); il tutto procedendo fino a quel dimenticato gioiello che è Breakdown – La trappola, che ci aveva fatto ben sperare per il suo regista Jonathan Mostow, poi abbastanza acquietatosi (anche se l’ultimo Il mondo dei replicanti ha i suoi estimatori).
Francamente è questo il De Laurentiis che preferisco ricordare, più di quello oggi rievocato per i successi più lontani e storicizzati, come La grande guerra o La strada: capolavori, sia chiaro, non è una questione di “preferenze” qualitative, ma di cercare invece di comprendere e circoscrivere con più chiarezza un percorso storico che non si ferma alla stagione più bella del cinema italiano, ma è stata capace di andare oltre.
Diversamente infatti staremmo qui a scrivere semplicemente di un sopravvissuto, una figura fuori tempo massimo dai connotati quasi romantici. Al limite un ennesimo emblema al mito del self-made-man che, partito come venditore della pasta prodotta nella ditta di famiglia, era poi assurto a gloria internazionale: invece possiamo guardare con rispetto a un produttore che ha saputo determinare un grande cinema e influire sull’immaginario degli ultimi decenni. D’altronde è questo ciò che ci interessa, la virtuosità di figure che hanno saputo farsi veicolo di cinema, definire carriere e creare percorsi immaginifici: d’altra parte se abbiamo avuto un E.T. lo dobbiamo anche a lui, che permise a Carlo Rambaldi di ottenere visibilità internazionale proprio con quel King Kong che citavo in apertura. E il cerchio, in questo modo, si completa.
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