La distanza che separa un’auto da un robot è misurabile con la meraviglia. E’ quanto aveva già capito Steven Spielberg oltre vent’anni fa, giocando insieme ai figli con i celebri “Transformers”, creati in Giappone dalla Takara, e poi portati alla ribalta internazionale dall’americana Hasbro. “Sapevo che in quel franchise c’era un film da fare” è stato il pensiero del grande regista e produttore americano. Un film in grado non soltanto di reiterare il divertimento per chi aveva conosciuto i giocattoli, o aveva visto le tante serie animate poi giunte anche in Italia, ma soprattutto di rinnovare il piacere della meraviglia, dello stupore quasi infantile, primario, alla base di tanto cinema spielberghiano classico.
Transformers in questo senso è un film di Steven Spielberg, nonostante il lavoro svolto da Michael Bay in cabina di regia. Perché totalmente ascrivibile all’autore di E.T. è la poetica di fondo presente in un film stupefacente nel senso più vero del termine: si resta stupefatti di fronte alle trasformazioni dei veicoli in robot, come accade peraltro agli stessi protagonisti della vicenda, spesso ripresi proprio in espressione estatica.
Le trasformazioni, come da titolo, sono le protagoniste: la camera le inquadra con un senso quasi sacrale, potente, rispettandone l’alterità ma cercando di svelare anche i possibili punti di contatto con il nostro mondo, mentre la stupenda musica di Steve Jablonsky ne omaggia la forza epica attraverso sonorità enfatiche ma carezzevoli, che guidano lo spettatore alla scoperta di questa nuova realtà. Per questo Autobots e Decepticons racchiudono in sé l’alieno spielberghiano di ieri e di oggi, la natura salvifica e vagamente angelica degli extraterrestri di Incontri ravvicinati, ma anche la foga distruttrice dei marziani de La guerra dei mondi.
Il film non a caso è costruito secondo una logica di conciliazione fra opposti: cosa potrebbero mai avere in comune dei giganti metallici esperti in battaglia con un goffo adolescente vessato dai genitori e interessato unicamente a farsi notare dalle ragazze? E ancora, cosa possono avere in comune un hacker affamato di ciambelle e gli analisti informatici del Ministero della Difesa Americano? Oppure i militari di stanza in Qatar e i civili mediorientali che li aiutano nel momento del pericolo? Esattamente quanto possono avere in comune un’auto e un robot: quasi nulla, anzi, dovrebbero trovarsi sui fronti opposti della stessa barricata, dividi da cultura, razza, religione, filosofie e comportamenti radicati. Eppure nella capacità di mantenere in equilibrio elementi fra loro distanti si ritrova il messaggio positivo del film, che è poi quello alla base dell’umanesimo e della fiducia nell’altro tipica del cinema di Steven Spielberg. Transformers vuole perciò costituire anche un auspicio per un mondo arroccato su posizioni di timore nei confronti dell’altro affinché superi le sue divisioni e si riunisca per rinnovare la conciliazione fra opposti.
La logica dell’ossimoro accompagna perciò la struttura stessa del film, che unisce azione roboante con una certa ironia demistificatoria (peraltro perfettamente in linea con il cartoon originario e con le strategie narrative di molti anime giapponesi, quasi a ribadire le origini di tutto), che vede i robot tanto potenti quanto preoccupati di nascondersi ai genitori di Sam, subire le angherie del cagnolino di casa e innaffiare il funzionario governativo con la loro benzina in modo irriverente! E l’amalgama funziona, risulta scevro da volgarità, ma accompagna una storia fantastica eppure credibile, attenta ad analizzare le conseguenze militari e politiche dell’invasione (per i primi attacchi vengono in un primo momento sospettate Cina o Iran), senza rinunciare all’ironia, che conferisce al tutto un certo brio, ma anche un sapore più infantile, che fa da contraltare alla seriosità della guerra fra i robot. Siamo insomma a metà strada fra lo scenario fantapolitico e il gioco per spettatori disposti a lasciare da parte il cinismo.
In questo senso Michael Bay si dimostra una scelta professionale, ottiene campo libero per dar sfogo alle proprie ossessioni stilistiche (fotografia patinata, uso della camera a mano nelle scene d’azione interrotta da ralenti molto plastici, costruzione iperbolica delle sequenze spettacolari) ma al contempo l’equilibrio degli elementi tiene insieme il film evitando deragliamenti, trivialità o pesantezze come accadeva nei suoi lavori precedenti. E perciò Transformers affascina. Meraviglia e risulta epico, appassionante. Si riesce a credere in questi moderni supereroi d’acciaio e il momento della trasformazione ha un sapore quasi ritualistico, come era nel cartoon. L’elogio dei buoni sentimenti portato avanti da Optimus Prime (leader carismatico e un po’ paternalista) non risulta stucchevole, ma naif. I maghi degli effetti speciali (meritevoli di un Oscar inspiegabilmente veicolato altrove) dal canto loro gongolano nel rimettere in scena gli eroi del passato secondo un’ottica nuova, sperimentano, di concerto con Bay, prospettive inedite per le scene di trasformazione e spingono lo spettatore su un ottovolante divertente e innocuo. Rigenerante perfino.
Alla fine la distanza fra un’auto e un robot viene colmata, così come il cinema di Steven Spielberg si unisce alla tecnica di Michael Bay. E lo scetticismo dello spettatore confluisce senza troppe difficoltà nel dimenticato sense of wonder.
Transformers
(id.)
Regia: Michael Bay
Sceneggiatura: Roberto Orci e Alex Kurtzman
Origine: Usa, 2007
Durata: 144’
Intervista sugli effetti speciali
Conferenza stampa di presentazione
Intervista agli sceneggiatori
Sito italiano sull’universo “Transformers”
Sito italiano ufficiale del film
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