"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

giovedì 1 dicembre 2011

Torino 2011: Day 6

Torino 2011: Day 6

E' ancora la Francia a primeggiare nelle visioni del Torino Film Festival, complice l'arrivo in Piemonte di Eugène Green per l'omaggio della sezione “Onde”: il regista, nato in America ma che ha poi “rinnegato” la terra d'origine per radicarsi profondamente nella cultura europea, fa già capolino come attore in Toutes les nuits, suo esordio che segna anche l'inizio delle proiezioni giornaliere. La vicenda segue gli amori impossibili di due giovani amici, la distanza apparentemente incolmabile fra i desideri e la realtà, in un racconto malinconico, forse un po' eccessivo nella lunghezza di quasi due ore, ma che già presenta tutte le caratteristiche stilistiche care all'autore. A seguire giunge la spiazzante favola Le monde vivant, racconto di dame, orchi e cavalieri girato con grande divertimento, dove la povertà visiva trova una perfetta corrispondenza in una filosofia narrativa che affida alla parola il compito di legittimare ogni figura e ogni stato dei personaggi: un cane diventa quindi un leone, un morto può tornare a vivere e una promessa d'amore è legittimata soprattutto se pronunciata. Un piccolo gioiello dal sapore vagamente bressoniano, divertente e poetico. Si passa quindi al Concorso Lungometraggi che propone il deludente sudcoreano Ganjeung – A confession, di Park Su-min, confusa ricognizione sul senso d'impotenza che un ex poliziotto specializzato in torture prova di fronte a una religione cattolica di cui non accetta la capacità di perdonare chi, come lui, ha commesso inenarrabili atrocità. Una messinscena piatta non aiuta un racconto incapace di elaborare lo spunto anche interessante che viene messo in scena, e che si affida a una serie di passaggi narrativi prevedibili quando non eccessivi nella sovrapposizione dei toni. Per ritrovare l'entusiasmo basta però cambiare sala e correre all'imperdibile appuntamento con uno dei sold-out festivalieri, il capolavoro Cane di paglia, di Sam Peckinpah, scelto da Sergio Rubini per la sezione “Figli e amanti”, in cui le personalità del cinema italiano propongono un loro “film della vita”. La feroce intelligenza di Peckinpah, la brutalità che sovverte ogni schema narrativo, giocando ancora oggi con le aspettative dello spettatore e l'iconografia degli attori (un magnifico e inquietante Dustin Hoffman e una splendida e desiderabile Susan George) sono una vera manna per ogni appassionato. Ma anche il presente non deve temere complessi d'inferiorità, soprattutto se la chiusura di giornata è affidata a un grande autore come Christophe Honoré, ormai una presenza fissa del festival, che stavolta ci offre il bellissimo Les bien-aimés: parte come un divertito musical alla Jacques Demy su una svampita ragazza degli anni Sessanta (la magnifica Ludivine Sagnier) che inizia a prostituirsi per gioco e così conosce l'uomo della sua vita, un medico della Cecoslovacchia prossima alla primavera di Praga con i carri armati sovietici che invadono le strade; e poi diventa un melodramma lacerante sulla figlia (una magistrale Chiara Mastroianni) e il suo amore impossibile per un batterista omosessuale che pure prova per lei una forte attrazione. Una visione gioiosa e capace di iscrivere ogni emozione sui corpi degli attori donando grande sensualità alla messinscena, si accompagna a parti più intense e strazianti, tipiche dei precedenti lavori di Honoré, in cui emergono pure timori concreti sull'incedere di malattie come l'AIDS e sulle perdite di cui è costellata la vita. L'insieme si snoda lungo quarant'anni di Storia, in un andirivieni di situazioni dove i personaggi sono sempre amati da qualcuno, ma non sembrano riuscire a trovare quella corrispondenza in grado di condurre all'agognata felicità, disegnando percorsi sempre diseguali e complessi. La chiusa è per questo una sorta di condanna all'amore che diventa un tormento per i figli e una prova insormontabile per i genitori. La distanza fra dimensione ideale e reale di Eugène Green trova, a suo modo, una sorta di naturale evoluzione.