Torino 2011: Day 6
E' ancora la Francia a primeggiare nelle visioni del Torino Film Festival, complice
l'arrivo in Piemonte di Eugène Green per l'omaggio della sezione
“Onde”: il regista, nato in America ma che ha poi “rinnegato”
la terra d'origine per radicarsi profondamente nella cultura europea,
fa già capolino come attore in Toutes les nuits, suo
esordio che segna anche l'inizio delle proiezioni giornaliere. La
vicenda segue gli amori impossibili di due giovani amici, la
distanza apparentemente incolmabile fra i desideri e la realtà, in
un racconto malinconico, forse un po' eccessivo nella lunghezza di
quasi due ore, ma che già presenta tutte le caratteristiche
stilistiche care all'autore. A seguire giunge la spiazzante favola Le
monde vivant, racconto di dame, orchi e cavalieri girato con
grande divertimento, dove la povertà visiva trova una perfetta
corrispondenza in una filosofia narrativa che affida alla parola il
compito di legittimare ogni figura e ogni stato dei personaggi: un
cane diventa quindi un leone, un morto può tornare a vivere e una promessa
d'amore è legittimata soprattutto se pronunciata. Un piccolo gioiello dal sapore vagamente bressoniano, divertente e
poetico. Si passa quindi al Concorso Lungometraggi che propone il deludente sudcoreano Ganjeung – A confession, di Park Su-min,
confusa ricognizione sul senso d'impotenza che un ex poliziotto
specializzato in torture prova di fronte a una religione cattolica di
cui non accetta la capacità di perdonare chi, come lui, ha commesso
inenarrabili atrocità. Una messinscena piatta non aiuta un racconto
incapace di elaborare lo spunto anche interessante che viene messo in
scena, e che si affida a una serie di passaggi narrativi prevedibili
quando non eccessivi nella sovrapposizione dei toni. Per ritrovare
l'entusiasmo basta però cambiare sala e correre all'imperdibile
appuntamento con uno dei sold-out festivalieri, il capolavoro
Cane di paglia, di Sam Peckinpah, scelto da Sergio Rubini per
la sezione “Figli e amanti”, in cui le personalità del cinema
italiano propongono un loro “film della vita”. La feroce
intelligenza di Peckinpah, la brutalità che sovverte ogni schema
narrativo, giocando ancora oggi con le aspettative dello spettatore e
l'iconografia degli attori (un magnifico e inquietante Dustin Hoffman
e una splendida e desiderabile Susan George) sono una vera manna per
ogni appassionato. Ma anche il presente non deve temere complessi
d'inferiorità, soprattutto se la chiusura di giornata è affidata a
un grande autore come Christophe Honoré, ormai una presenza fissa del
festival, che stavolta ci offre il bellissimo Les bien-aimés:
parte come un divertito musical alla Jacques Demy su una svampita
ragazza degli anni Sessanta (la magnifica Ludivine Sagnier) che
inizia a prostituirsi per gioco e così conosce l'uomo della sua
vita, un medico della Cecoslovacchia prossima alla primavera di Praga
con i carri armati sovietici che invadono le strade; e poi diventa un
melodramma lacerante sulla figlia (una magistrale Chiara Mastroianni)
e il suo amore impossibile per un batterista omosessuale che pure
prova per lei una forte attrazione. Una visione gioiosa e capace di
iscrivere ogni emozione sui corpi degli attori donando grande sensualità alla messinscena, si accompagna a parti più
intense e strazianti, tipiche dei precedenti lavori di Honoré, in cui emergono pure timori concreti
sull'incedere di malattie come l'AIDS e sulle perdite di cui è costellata la vita.
L'insieme si snoda lungo quarant'anni di Storia, in un andirivieni
di situazioni dove i personaggi sono sempre amati da qualcuno, ma non
sembrano riuscire a trovare quella corrispondenza in grado di
condurre all'agognata felicità, disegnando percorsi sempre diseguali
e complessi. La chiusa è per questo una sorta di condanna all'amore
che diventa un tormento per i figli e una prova insormontabile per i
genitori. La distanza fra dimensione ideale e reale di Eugène Green
trova, a suo modo, una sorta di naturale evoluzione.
1 commento:
bene!
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