Torino 2011: Day 7
Sebbene si sia imboccata
la fase finale che condurrà alla premiazione di sabato sera, il
Torino Film Festival non ha ancora smesso di interrogarsi sul senso
della realtà e di produrre visioni in grado di affascinare, anche
quando si parte da temi già sfruttati in precedenza: la settima
giornata è stata dunque quella degli immaginari consolidati e del
rapporto padre/figlio. A volte il padre è un inetto proprietario di
un negozio di pesci che resta coinvolto nei loschi affari di un
collega che ne fa il suo tirapiedi per eliminare le persone scomode,
in un tripudio di corpi scarnificati, sesso e sangue a volontà. Si
sarà capito che siamo tornati dalle parti di Sion Sono, con il suo
Cold Fish che descrive la realtà nipponica con la durezza che
ormai abbiamo imparato a conoscere (e temere): il film è una sorta
di Cane di paglia dei nostri giorni, più lineare ma sempre
impietoso nello sconvolgere l'ordine costituito raccontando la
vacuità delle sovrastrutture su cui si reggono famiglie e società,
tanto da non lasciare speranze sul campo. L'impossibilità di
ricominciare e la redenzione negata sono anche i temi al centro di
Ghosted, film inglese di Craig Viveiros presentato nel
Concorso Lungometraggi: dramma carcerario di discreto livello su un
detenuto modello che prende sotto la sua ala protettrice un ragazzo
con cui spera di costruire quel rapporto filiale negatogli dalla
morte del figlio, ma le cose non andranno come previsto. Se invece
l'attenzione si punta su una ragazza ecco la Josephine di Die
Unsichtbare – Cracks in the Shell (per la regia di Christian
Schwochow, presentato in "Festa Mobile"), che diventa la prediletta di un regista teatrale, il
quale la costringe a confrontarsi con i suoi demoni per dare più
spessore alla parte. E i demoni sono una difficoltà a relazionarsi
con il genere maschile dopo l'abbandono del padre, e una madre che
dedica tutte le attenzioni alla figlia disabile. Il tutto in una
struttura “in crescendo” che può rimandare a classici del
conflittuale rapporto arte/vita sublimato di recente in modo
magistrale dal Cigno nero di Darren Aronofsky. Il film
condivide con quello di Viveiros una messinscena spartana e quasi
televisiva (stante il formato Scope) che si sposa a una progressione
alquanto prevedibile: in ogni caso la visione scorre senza intoppi
rivelandosi interessante e anche intensa, soprattutto in virtù delle
ottime prove attoriali. Quale legame ci possa essere poi fra questi
figli/padri e i giovani protagonisti di Xiao Shi Da Kan – Honey
Pupu, del taiwanese Hung-i Chen, è presto detto: pur mancando i
padri, in questo caso, si continuano a esplorare i territori
dell'assenza, con la vicenda che vede alcuni ragazzi cercare un
compagno scomparso, lungo un percorso che li porterà a intrecciare
un mondo in continua evoluzione, dove la realtà è letteralmente
cangiante e i cimeli del passato rimandano a una memoria perduta. In
ossequio alla sezione “Onde” dove è stato presentato, Honey
Pupu propone un linguaggio non lineare e aperto alla
sperimentazione, con inserti onirici, sovrapposizioni, realtà
virtuali e trasparenze per raccontare un presente che fagocita il
passato e lascia scomparire i suoi “pezzi”: cosa può restare
dell'amore in un mondo senza memoria? Un film non facile, ma che
unisce lo sguardo metropolitano di un Hou Hsiao Hsien a una vena
surreale e poetica molto originale: una delle folgorazioni del
festival. Chiusura ancora affidata al rapporto con la memoria
attraverso il documentario animato Tatsumi (di nuovo "Festa Mobile"), diretto da Erick
Koo e incentrato su Yoshihiro Tatsumi, uno dei veterani del manga, la
cui vita è raccontata con uno stile ripreso dai suoi fumetti e
intervallata ad alcune delle sue storie. Un modo per riflettere sia
sulle strategie dell'arte che sulla Storia del Giappone. E il
cerchio, anche per quest'oggi, si chiude.
Nessun commento:
Posta un commento