Torino 2011: End of Days
Scorrono le cifre alla
fine dell'evento e come sempre sono positive, fra incrementi di
pubblico e accreditati, ma altrettanto puntualmente questi dati -
figli di chi crede che tutto debba avere un peso, una misura, e
l'arte si debba sempre e comunque confondere con il consenso e la
propaganda - qui risultano poco interessanti. Ciò che conta è il
progetto e quello del Torino Film Festival è, oltre che solido,
ormai consolidato grazie a un formato capace di essere dinamico ma al
contempo strutturato secondo un'organizzazione rigorosa. E' passato
ormai un lustro dai controversi
fatti che hanno cambiato la squadra di lavoro (con l'avvicendamento
di due direttori, Nanni Moretti prima e Gianni Amelio ora) e oggi si
può affermare che, pur con le riserve per il modo con cui fu gestita
la cosa e le ingerenze dall'alto, il cambiamento ha fatto bene a una
manifestazione che ha saputo mantenere la barra, ritrovando la sua
tradizione e abbandonando le umoralità modaiole del momento.
Oggi possiamo scriverlo
con sincerità: non servono le figure pittoresche alla Ivan Cardoso,
né le retrospettive estemporanee con i micro-omaggi alla Hammer o al
gotico europeo, realizzate con l'ansia del “buttare dentro”
quanta più roba possibile e senza una logica. Servono invece spazi
come “Onde” o “Rapporto confidenziale” (in assoluto i più
stimolanti) grazie ai quali scoprire e studiare autori come Eugène
Green e Sion Sono, perché i loro Le pont des arts e Be
Sure to Share sono state fra le folgorazioni del festival. Allo
stesso modo è sempre utilissimo il lavoro delle retrospettive: non
credo esistano altri festival così grandi e capaci di unire alla
dimensione di massa un lavoro così raffinato e completo sulla
memoria, fatto non solo della riproposizione dei film, ma di volumi
integrativi, convegni, incontri con chi quel cinema lo ha fatto, lo
ha vissuto e lo può condividere con il pubblico.
Il Torino Film Festival,
insomma, è ancora giovane dentro, ma nel complesso è diventato
grande, più maturo, perché fa ricerca e promuove cultura, ed è
anche capace di essere “poroso” quel tanto che basta per
interessare, stuzzicare e attirare ogni tipo di utenza. Ormai sotto
la Mole c'è tutto: il
glamour delle serate inaugurali e delle feste finali, le anteprime
dei Kaurismaki, Allen, dei film con i divi Brad Pitt e George Clooney
e la scoperta dei talenti di Taiwan (l'Hung-i Chen di Honey Pupu)
o degli Usa (il Clay Jeter di Jess + Moss), con un concorso
che sarà pure opinabile in alcune scelte, ma ha il coraggio di
spaziare dal minimalismo del vincitore islandese Either Way,
di Hafsteinn Gunnar Sigurdsson (purtroppo non visto e da recuperare)
ai toni pop dell'inglese Attack the Block di Joe Cornish.
Il tutto in una struttura
con poche pecche: proiezioni sempre puntualissime, variazioni di
programma ridotte al minimo, incastri abbastanza agevoli grazie a una
buona distribuzione fra le sale (qualcosa va sempre perso, è
inevitabile, ma i percorsi possono essere ritagliati con una certa
tranquillità), servizio di sbigliettatura funzionale: certo,
servirebbero ancora più sale (o sale più grandi), il ripristino del
servizio di navette e bisognerebbe tenere conto che non si può
proporre un film di Werner Herzog nel minuscolo Greenwich 3 perché è
chiaro che a quel punto resterà fuori parecchia gente: ma si tratta
più che altro di limature in un sistema che funziona - magari
qualcuno ricorderà i giganteschi tabelloni con le variazioni di
programma nei decenni precedenti o i ritardi che si accumulavano e le
file che non si smaltivano.
Cosa augurare dunque a
questo festival? Di proseguire
su questa strada senza tentare sciocchi stravolgimenti della formula,
perfezionando l'ottimo lavoro di ricerca svolto sinora dallo staff.
Se sarà così, il futuro non dovrà mai temere il confronto
con il passato (viene ancora in mente quanto racconta il bellissimo
Midnight in Paris di Woody Allen) e l'essenza del TFF resterà
sempre attuale, seppure profondamente radicata nella tradizione e
nell'anticipazione. Un festival moderno, insomma: il resto - le
polemiche che impazzano sui quotidiani che non hanno nulla da dire e
le attese dei politici che dovrebbero soltanto tacere – è un
orpello che ronza come la più fastidiosa delle mosche.
Infine il consueto gioco
della memoria relativo alle “immagini” che questo festival ci ha
consegnato: su tutte il contrasto fra la forza selvaggia dei film e i
gesti eleganti ed essenziali di Sion Sono, che a ogni presentazione
salutava il pubblico togliendosi elegantemente il cappello; poi tre
volti maschili: quello ironico nella sua malinconica sofferenza di
Joseph Gordon Levitt in 50/50 di Jonathan Levine; quello
sorpreso e appassionato di Owen Wilson in Midnight in Paris;
quello di André Wilms in Miracolo a Le Havre di Kaurismaki,
che annuncia imperturbabile al direttore del carcere di essere il
fratello albino di un detenuto di colore. E poi tre volti femminili:
quello dolente di Natacha Régnier in Le pont des arts, quello
tormentato di Chiara Mastroianni in Les bien-aimées di
Christophe Honoré e quello sul punto di scoppiare in lacrime di
Susan George in Cane di paglia di Sam Peckinpah. Volti che
sono storie e emozioni, quelle che è bello ritrovare ogni anno in
questo festival.
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