"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

martedì 8 giugno 2010

Daimajin

Daimajin

Giappone, periodo Kamakura. Alle pendici della montagna sacra che custodisce il corpo del grande Dio Majin, si consuma una congiura di potere: il malvagio Samanosuke uccide infatti lo Shogun Hanabusa e gli uomini a lui fedeli, per poi rilevare il comando. Solo Tadafumi e Kozasa, i due giovani figli del signore, sopravvivono al massacro, salvati dal coraggioso e leale samurai Kogenta. Con l’aiuto della sacerdotessa Shinobu, Kogenta e i ragazzi trovano nascondiglio nella montagna sacra, vicino alla statua del Dio Majin e lì trascorrono dieci anni in pace. Nel frattempo Samanosuke riduce in schiavitù gli uomini del villaggio, obbligandoli a costruire la sua fortezza. Quando Kogenta e Tadafumi vengono trovati dagli uomini di Samanosuke e condannati a morte, saranno le preghiere di aiuto di Kozasa a risvegliare il Dio Majin e a scatenare la sua furia.

Non c’è dubbio che se avesse goduto di una distribuzione italiana, Daimajin sarebbe diventato una figura popolare anche nel nostro paese, similmente ad altre creature iconiche del fantastico giapponese, prima fra tutte il mitico Godzilla. E’ difficile infatti resistere al fascino sprigionato da questo gigantesco guerriero di pietra che arriva a raddrizzare i torti della gente inerme, preservando l’ordine di un Giappone medievale dipinto con tratti sicuramente semplici, ma coerenti con i gusti di un cinema popolare attento a una precisa identificazione dei ruoli.

Il presunto schematismo della storia non fa infatti venir meno una qualità filmica eccellente, capace di unire un gusto narrativo degno delle epiche storie di samurai - con intrighi di palazzo e sentimenti (familiari e non) di grande intensità - a un’attitudine figurativa degna del miglior cinema fantastico, con passaggi che, per accostamenti cromatici, rimandano vagamente al cinema di Nobuo Nakagawa (allo spettatore occidentale potrà venire in mente anche quello di Mario Bava).

In effetti, stante la capacità emotiva dei sentimenti messi in campo dai personaggi, ciò che affascina particolarmente del film è proprio la sua forza visiva e la qualità teorica che, in anticipo sui tempi, Daimajin riesce a veicolare. La montagna sacra in cui il corpo del gigante è custodito, è infatti attraversata da presenze fantasmatiche che suggeriscono slanci visionari al regista Kimiyoshi Yasuda: mani scheletriche che si rivelano rami d’albero, statue di saggina che a una seconda occhiata appaiono semplici alberi e strane apparizioni che attraversano l’inquadratura sono lì a suggerire la compresenza di reale ed immaginario nello spazio di pochi metri, una sorta di qualità trasparente dello spazio che viene poi sintetizzata nella forza visiva espressa dal gigante di pietra.

Nell’interpretazione di Riki Hashimoto (il figurante nella tuta di Majin), infatti, il Dio guerriero rinnova uno dei presupposti taciti del fantasy giapponese, ovvero la riconoscibilità dell’elemento fantastico come altro da sé rispetto al reale. Majin come Godzilla o Gamera (creatura della stessa casa, la Daiei) non pretende infatti di apparire necessariamente credibile all'occhio di chi guarda, ma chiede invece allo spettatore un patto di riconoscimento, che diventa atto di fede verso un ordine capace di porre fine al Caos. La dinamica che dunque si va a instaurare riflette naturalmente quella della sospensione d’incredulità che è presupposto stesso della visione cinematografica.

Tutto questo allinea quindi l’impresa di Majin a quelle decisamente più catastrofiche e inquiete di Godzilla, dal quale il Dio di pietra si distanzia naturalmente per la sua natura positiva sebbene ugualmente incontrollabile. Gli abitanti del villaggio si prodigano infatti in rituali che impediscano al gigante di risvegliarsi dal suo sonno e quindi il rapporto che si viene ad instaurare è al contempo di venerazione e terrore, di convivenza con un pericolo che è riconosciuto come tale, ma non giudicato quanto compreso nella sua essenza. Un rapporto che ricorda quello che lega le genti del Giappone alla pericolosità vulcanica della loro terra. In effetti Majin non può essere pensato senza la sacra montagna che lo custodisce e al contempo lo immobilizza e della quale egli è propaggine e al contempo essenza: ecco dunque che la sua figura è anticipata da continue scosse telluriche che legano il suo risveglio al dolore di una terra vittima dei soprusi, anche se poi a sciogliere il suo cuore è soprattutto la purezza di un pianto femminile, in ossequio ancora una volta al Mito e alla fiaba.

Dal versante narrativo la storia indugia il più possibile prima di mostrare la rinascita del gigante, giocando anche con le aspettative dello spettatore, pienamente ripagate dallo splendido lavoro di composizione dell’immagine che mostra con incredibile coerenza la presenza di Majin all’interno delle scene di massa con i civili in fuga e i cattivi, preda della sua furia. Da questo versante la Daiei dimostra una precisione nell’uso degli effetti speciali che la pone almeno un decennio avanti rispetto agli esempi coevi e che si sposa alla cura del versante scenografico. La pesantezza dei passi del gigante, che anticipano e sanciscono la sua possanza mitica, si sposa poi al mito del gigantismo presente tanto nel cinema quanto nel manga e nell’animazione giapponese (pensiamo a Mazinger Z o Giant Robot) e che riflette il senso di impotenza rispetto a forze più grandi in grado di decidere il destino degli uomini e che nella fierezza ieratica dei propri gesti non ammettono repliche: la grandezza di Majin, in fondo, sta anche nel suo costituire un elemento sì incontrollabile, estremamente concreto nella minaccia che rappresenta, ma animato da dinamiche elementari e perfettamente immediate, forza punitiva ma anche capace di magnanimità. Questo, più della sua incredibile forza, ne costituisce il fascino maggiore.

Realizzato nel 1966, Daimajin ha dato il via a una trilogia, con due seguiti realizzati nello stesso anno: più di recente il progetto di una nuova versione affidata al grande Takashi Miike è purtroppo naufragato; al suo posto è stata varata una serie televisiva di ambientazione contemporanea (Daimajin Kanon) attualmente in programmazione in Giappone.

Daimajin
Regia: Kimiyoshi Yasuda
Sceneggiatura: Tetsuro Yoshida
Origine: Giappone, 1966
Durata: 84’

1 commento:

Sciamano ha detto...

grande, questo é un film che voglio vedere da tempo!