"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

venerdì 20 marzo 2009

Gran Torino

Gran Torino

Dopo la morte della moglie, Walt Kowalski è rimasto solo nella sua casa, all’interno di un quartiere ormai totalmente popolato da asiatici. L’uomo trascorre le sue giornate in veranda, bevendo birra, lanciando occhiate di sdegno contro gli “stranieri” che lo circondano e lustrando la sua Ford Gran Torino, gelosamente custodita in garage. Proprio il furto dell’auto diventa però il rito d’iniziazione che il giovane Tao deve superare per entrare nella gang giovanile di suo cugino: scoperto, Tao diventa suo malgrado l’artefice dell’avvicinamento di Walt alla comunità asiatica del quartiere. L’uomo lo prenderà anche sotto la sua ala protettrice instaurando con lui quel rapporto che non era mai riuscito ad avere con i figli.

Gran Torino è un film in perenne oscillazione tra due estremi: la vita e la morte innanzitutto, da sempre centrali nel cinema di Clint Eastwood, con una inevitabile preminenza della seconda. Ma stavolta c’è qualcosa di diverso, una tensione particolare, la stessa che probabilmente rende il film così magnificamente imperfetto, narrativamente disequilibrato, diseguale nel dare spazio a momenti ironici o a gag che raccolgono più spazio di quanto dovrebbero (soprattutto in un confronto diretto con il precedente e più compatto Changeling). La sensazione è che stavolta la morte debba lasciare spazio maggiormente alla vita e per questo i termini del rapporto devono essere riequilibrati, per ricominciare daccapo. Ecco dunque che Walt Kowalski si concretizza come una summa dei personaggi eastwoodiani classici: il duro sergente Gunny, il pistolero essenziale nei gesti, e, inevitabilmente, il cinico Harry Callaghan. Ma il grilletto stavolta non deve essere premuto, la pistola viene formata solo dalle dita che sono puntate contro un nemico più fittizio che reale. Gli estremi che servono al film per perorare il suo continuo oscillamento di toni sono d’altra parte meramente strumentali. Possiamo anche porre in essere la dicotomia tra il “proprio territorio” e il mondo “di fuori” dove vivono gli altri, ma è chiaro come sia solo la prospettiva a dare forma a questi estremi, perché è sufficiente offrire il controcampo allo “straniero” per rendersi conto che l’anziana donna nella sua veranda considera allo stesso tempo Walt il “diverso,” il monstrum che non ha lasciato libera la sua casa in uno spazio ormai totalmente di proprietà dei “gialli”.

In fondo le sfumature tra gli opposti riflettono la contraddizione insita in un americano ultraconservatore di origine polacca, che interagisce con amici di varia nazionalità (il barbiere italiano in primis, poi l’ingegnere irlandese e, inevitabilmente, i vicini asiatici), a dare l’idea di un tessuto che è americano soprattutto in quanto multietnico. Ecco dunque che la tensione interna al film si ritrova nella necessità di superare il bisogno di punti fermi, per produrre una materia in perenne oscillazione che sia capace di ricomprendere i singoli nel tutto. Ma qui si evidenzia il fulcro nodale della storia: la necessità di una comprensione reale che superi il mero ricalco dei codici.

La mimesi di una cultura altrui, infatti, non può condurre a nulla se non passa per la conoscenza e l’attribuzione di senso a ciò che si sta facendo: il ragazzo impacciato che chiama “fratello” un nero imitando un suo ipotetico linguaggio mutuato dalle mode e dalla musica è il simulacro evidente di una normalizzazione delle diversità in un amalgama indistinto che non produce né senso né tantomeno conoscenza. Occorre innanzitutto sapere da dove si viene (e Walt, con il suo carico di dolori e rimpianti, sicuramente è uno che lo sa) per capire dove si sta andando. Il superamento del confine ideale che coincide con il “proprio terreno” è quindi un atto reale che produce gesti fisici (la condivisione del cibo, degli attrezzi da lavoro, fino all’auto), ma anche ideale che deve produrre una conoscenza autentica dell’altro da sé.

Gli estremi più evidenti su cui il film si fonda sono quindi eminentemente fordiani: nel senso di John, autentico nume tutelare della vicenda per la palingenesi come figura retorica su cui articolare un racconto votato alla costituzione di una comunità (concreta e non sottoposta ai fittizi legami imposti da convenzioni e regole). Ma anche nel senso di Henry, non a caso figlio di immigrati e diventato il cantore americano di un progresso che produce benessere soltanto quando diventa condiviso: ecco perché la Gran Torino diventa l’icona del film, di una qualità che stavolta rovescia completamente di segno la disarmante presa di coscienza di Mystic River, dove la vendetta era considerata come l’inevitabile elemento fondante della società statunitense. Stavolta anzi è proprio il ripudio della vendetta a cementare il legame e la morte diventa non più il viatico per una perdizione, né un gesto di pietà estrema (come in Million Dollar Baby), ma l’esempio più diretto che il passato può fornire al presente riguardo alla necessità di capire gli errori e fondare un presente più giusto.

Pertanto diventa necessario che Clint Eastwood debba mettere in scena in modo puramente catartico la sua fine: come ad assumere su di sé quella morte che nel resto del suo cinema era un sentimento estroflesso, che dettava i tempi e caratterizzava la realtà, e che ora può essere strappata al mondo per far trionfare finalmente la vita. Tutto questo con grande passione, concedendosi e concedendoci momenti gustosi, le smorfie tipiche del suo personaggio, in quella che è dichiaratamente la sua ultima performance davanti alla macchina da presa. Speriamo davvero che non sarà così, ma intanto godiamoci l’ennesimo gioiello della sua straordinaria carriera.

Gran Torino
(id.)
Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura: Nick Schenck
Origine: Usa, 2008
Durata: 116’

Sito ufficiale
Sito ufficiale americano
Intervista a Clint Eastwood
“Gran Torino”: tema cantato da Clint Eastwood
La Ford Torino su Wikipedia
La Guerra di Corea su Wikipedia
Henry Ford su Wikipedia

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Bellissima recensione, Davide, soprattutto perchè è davvero difficile trovare parole non banali per descrivere ancora la grandezza di Clint.

PS: io non ci credo che questa sarà stata la sua ultima interpretazione. O almeno lo spero.

Ale55andra ha detto...

"Stavolta anzi è proprio il ripudio della vendetta a cementare il legame e la morte diventa non più il viatico per una perdizione, né un gesto di pietà estrema (come in Million Dollar Baby), ma l’esempio più diretto che il passato può fornire al presente riguardo alla necessità di capire gli errori e fondare un presente più giusto".

Parole sante.