E’ andata bene, ed è un sollievo scriverlo. Gianni Amelio e la sua squadra hanno fatto un buon lavoro cercando non di cambiare quanto di riequilibrare. A festival terminato si può infatti considerare la 27a edizione del TFF un interessante work-in-progress verso una forma al passo non tanto con i tempi (che sono quelli che sono…), ma soprattutto con la storia e la tradizione di questo fondamentale appuntamento cinefilo.
Sembra che finalmente, insomma, ci si sia posto il problema di non personalizzare la manifestazione sulle idiosincrasie del direttore di turno, che ha invece lavorato di concerto con la sua squadra come un filtro, attraverso il quale far passare un sentire variegato, in modo da dare espressione alle più diverse manifestazioni cinematografiche.
In questo senso facciamo nostre le parole di Dario Zonta, che, nel commentare il premio andato al bravo Pietro Marcello per il suo La bocca del lupo, ha giustamente rimarcato l’importanza di inserire nella selezione ufficiale un titolo così distante dai formati canonici: un atipico ritratto della città di Genova, fra filmati di repertorio e contemporaneità, visto attraverso i racconti di vita di due personaggi borderline, Enzo e Mary, innamoratisi in carcere. Un lavoro caratterizzato da una forma di lirismo capace di farsi immediatamente narrazione empatica e quindi emotiva, antitetica ai canoni del genere documentario in cui pure l’opera si può ricondurre. E tutto questo peraltro in soli 67 minuti di durata (impossibile pensare a un eventuale passaggio televisivo…)! Un film che sarà distribuito anche nelle sale italiane da BIM.
Lasciamo quindi da parte i (per fortuna pochi) piagnistei di chi invocava più glamour, e anche gli inopportuni trionfalismi incentrati principalmente sulle cifre dei “tutto esaurito”, ma anche le seriosità di chi invece rivendicava il rigore come cifra fondamentale della kermesse: Torino è qualcosa di più, e meno male. E’ la possibilità di pensare che il cinema possa ancora costituire un polo attrattivo a prescindere dal nome e dai pruriti del politico di turno: questa attitudine è l’unica capace di rendere un evento culturale importante e bello da seguire, prezioso anche quando finisca per mancare il capolavoro. Ecco dunque che il concorso ha ritrovato una centralità altrimenti dimenticata, grazie a una intelligente razionalizzazione del programma, in passato sparso in una struttura a ragnatela che creava soltanto confusione.
Certo, non eccediamo in trionfalismi: c’è ancora del lavoro da fare per trovare il giusto equilibrio fra visibilità e offerta. La sezione Festa Mobile, pure pregna di titoli interessanti, ha riunito molti degli spazi collaterali del passato (fuori concorso, omaggi ai maestri), ma è apparsa come un corpo-monstre all’interno del Festival e ha un po’ fagocitato il resto. Il riferimento non è tanto alle retrospettive che, storicamente, costituiscono una piccola “riserva” dai contorni ben delimitati e che il pubblico sa riconoscere e amare facilmente, ma alle sezioni Onde e Figli e amanti. La prima, dedicata al cinema sperimentale, nonostante un programma di altissima qualità è apparsa infatti sacrificata da una programmazione poco penetrante, con orari non sempre agevoli, spesso in contrapposizione ad eventi di larga portata: spiace ad esempio che un gioiello come Un sourir malicieux, di Christelle Lheureux, eccezionale rilettura/ripensamento de Gli uccelli di Sir Alfred Hitchcock sia stato lanciato contro la serata-evento che ha visto il sommo Francis Ford Coppola presentare la versione restaurata di Scarpette rosse. E che in generale la bellissima idea dell’Hitchcock Day non abbia avuto la centralità che meritava. Ed è solo un esempio.
I titoli culto dei registi italiani, protagonisti della sezione Figli e amanti, sono anche apparsi sacrificati, smorzando l’interessante ripensamento di quella che l’anno scorso era (seppur con una formula diversa) una delle proposte più esaltanti del festival.
Comunque la direzione tracciata è quella giusta, meno scanzonata e più ragionata rispetto a una decina d’anni fa, e in cerca di un baricentro che possiamo fiduciosamente sperare verrà trovato nei prossimi anni. Intanto ci portiamo dentro il piacere dell’aggregazione che genera il culto (ad esempio per l’esaltante personale di Nicolas Winding Refn), ma soprattutto della scoperta, con una serie di titoli che troveranno spazio nei prossimi articoli del Nido. C’è tanto buon cinema in giro e appuntamenti come questo servono a ricordarcelo, mentre il mondo “di fuori” dedica troppa attenzione a prodotti che non lo meriterebbero. La cinefilia, in fondo, è militanza e diventa in sé atto critico che porta a far conoscere e amare il cinema: è stato proprio Torino a enunciarlo anni fa (allora il direttore era Stefano Della Casa) e oggi siamo lieti che sia stato ancora Torino a ricordarcelo.
3 commenti:
Due film di Refn li ho nella mia cineteca (Bleeder e Pusher), ma non li ho mai visti...Bronson, dopo aver letto la tua recensione, mi sto già adoperando per trovarlo...attendo la disamina più approfondita dei singoli film...grazie per le dritte....a me è nato un bimbo per cui per un po' di festival di cinema ne devo fare (volentieri) a meno...comunque ho talmente tanti film da vedere in casa che le sollecitazioni non mancano...A presto Zone
Grande Zone, mi fa sinceramente piacere apprendere della tua paternità!
Riguardo a Refn: "Pusher" e "Bleeder" sono decisamente degli ottimi punti di partenza per introdurti all'opera di questo interessante autore.
Ci si rilegge come sempre!
Concordo praticamente in toto con ciò che hai scritto.
PS: ovviamente, come sempre, non poteva che vincere uno dei film in concorso che NON ho visto... :(
PS2: non sapevo che Un Sourire Malicieux ti avesse così entusiasmato. Io forse devo ripensarlo un attimo, anche se senz'altro è un lavoro meritevole di considerazione.
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