Kalevet (Rabies)
C'è una donna in un
bosco, intrappolata in una buca. C'è suo fratello che la guarda
disperato e corre a cercare aiuto, sperando di poterla trarre presto
in salvo. Ci sono quattro amici in auto (due ragazzi e due ragazze),
che investono inavvertitamente l'uomo che cerca aiuto. Ci sono due
poliziotti che accorrono per cercare di capirci qualcosa, ma uno dei
due è un folle e inizia a molestare le ragazze. C'è un uomo maturo
che mentre vaga nel bosco si ritrova a salvare la ragazza della buca.
E c'è un serial killer, che forse è quello che ha scavato la
trappola. Tutti personaggi destinati in qualche modo a incontrarsi,
confliggere e, in larga parte, a morire.
Un tempo si diceva che in
Italia non si possono fare horror perché da noi c'è il sole. A
Israele c'è un pregiudizio simile, ma i motivi sono ben più seri:
c'è un conflitto perenne, e la cronaca è spesso foriera di tali
spargimenti di sangue da rendere ostico qualsiasi confronto con i
linguaggi di genere. Il governo non agevola poi operazioni di questo
tipo e i pur blandi fermenti si sono sempre dovuti scontrare con una
realtà produttiva difficile. Contro ogni convinzione si sono però
mossi Aharon Keshales e Navot Papushado, che, da perfetti
indipendenti, hanno realizzato questo sorprendete Kalevet
(“Rabies” è il titolo internazionale), primo film israeliano a
rivendicare con orgoglio la patente dell'horror. I due hanno alle
spalle una storia alquanto curiosa: Keshales insegnava infatti cinema
e Papushado era un suo allievo. Un tipo vivace e, come lui,
appassionato di horror: la persona giusta, insomma, per spingerlo a
“osare”, e a compiere il “grande passo” che avrebbe portato
entrambi a rompere il tabù nazionale. La sfida assume un particolare
interesse se consideriamo che, pur privi di una tradizione forte alle
spalle, i due neoregisti non sono caduti nella facile trappola
dell'emulazione di modelli altrui, ma hanno invece ragionato su cosa
significa fare horror nel loro paese e hanno realizzato un prodotto
originale e pregno dei significati tipici della propria cultura.
La storia, come si può
evincere dalla breve sinossi in apertura, si concentra su un gruppo
di persone in un bosco, che è uno spazio al contempo ben definito,
ma anche aperto, “poroso”, come si rivelerà essere il racconto.
Sebbene sia abbastanza evidente un lavoro di scrittura ben elaborato
e intelligente, la prima parte sembra infatti procedere in maniera
reticente, e suscita nello spettatore quel senso di spaesamento
tipico di chi si chiede dove il racconto voglia andare a parare. I
personaggi entrano e escono di scena come su un proscenio teatrale, i
dettagli più importanti spesso si rivelano essere quelli in secondo
piano, mentre l'attenzione è deviata da dialoghi apparentemente
futili che giocano di sponda con le aspettative dello spettatore. Il
montaggio, dal canto suo, è preciso nello “staccare” da una
situazione all'altra sempre nell'attimo in cui sembrano emergere dei
dettagli in grado di rendere più chiari i fatti. È una manovra
sagace, che costeggia i perni del racconto e li lascia maturare nei
giusti tempi, dando al tutto la sensazione di procedere un po' per
improvvisazione, un po' per inerzia.
Nel frattempo iniziano a
emergere i tratti tipici del genere, che guardano alle dinamiche
dello slasher movie, iscritte però sugli scenari soleggiati
del survival horror (l'intera vicenda si svolge infatti alla
luce del sole). Ma è nel conforto dei cliché che i due registi
giocano bene le loro carte: quando il body count inizia,
infatti, le morti avvengono più che altro per la stupidità delle
azioni commesse dei personaggi, per i loro errori, o per l'effetto
inesorabile del caso e di una naturale diffidenza che sembra permeare
l'ambiente. Il bosco, già di per sé, è pieno di trappole e mine,
ma poi interviene tutta la sovrastruttura fornita dalle nevrosi dei
personaggi, dai loro conflitti che lasciano emergere una latente
tensione sessuale: ognuno ha un problema sentimentale o parentale
alle spalle, oppure prova un desiderio per qualcuno, a volte i legami
si confondono, i fratelli diventano amanti... tutto si accumula, e l'effetto è sempre più spiazzante.
Alla fine si
chiarisce l'intento dei due autori, di come questo horror non sia un
meccanismo di genere tradizionale, ma una sorta di commedia nera che
rispecchia l'umorismo irridente tipico della cultura ebraica. Come un
Polanski più divertito e meno hitchcockiano, Keshales e Papushado
riescono infatti a ridere delle debolezze tipiche della propria
realtà. Sebbene non manchino momenti genuinamente scioccanti e scene
violente che rendono il racconto una folle sabaranda di morti, su
tutto domina una costante tensione sempre legata a un sottile
divertimento, che mette alla berlina una società evidentemente
percepita come profondamente violenta, al punto da contenere in sé i
germi della propria autodistruzione.
Il che ci porta anche
alla finalità ultima dell'horror, che è quella di incarnare uno
sguardo critico nei confronti della realtà. Kalevet ci
dimostra quindi come ci sia posto per l'horror anche nello scenario
difficile di Israele, ma soprattutto come sia possibile sfruttare
ancora una volta i linguaggi di genere per parlarci della realtà,
anche quando gli intenti sembrano ben altri. C'è da sperare che il
film sia in qualche modo distribuito: d'altronde, anche se uscito in
patria a fine 2010, è giunto in America soltanto nel marzo scorso.
Al momento è comunque rintracciabile in versione fansub con
sottotitoli in italiano.
Kalevet
Titolo internazionale:
Rabies
Regia e sceneggiatura:
Aharon Keshales e Navot Papushado
Origine: Israele, 2010
Durata: 93'
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