"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 2 luglio 2012

Kalevet (Rabies)

Kalevet (Rabies)

C'è una donna in un bosco, intrappolata in una buca. C'è suo fratello che la guarda disperato e corre a cercare aiuto, sperando di poterla trarre presto in salvo. Ci sono quattro amici in auto (due ragazzi e due ragazze), che investono inavvertitamente l'uomo che cerca aiuto. Ci sono due poliziotti che accorrono per cercare di capirci qualcosa, ma uno dei due è un folle e inizia a molestare le ragazze. C'è un uomo maturo che mentre vaga nel bosco si ritrova a salvare la ragazza della buca. E c'è un serial killer, che forse è quello che ha scavato la trappola. Tutti personaggi destinati in qualche modo a incontrarsi, confliggere e, in larga parte, a morire.


Un tempo si diceva che in Italia non si possono fare horror perché da noi c'è il sole. A Israele c'è un pregiudizio simile, ma i motivi sono ben più seri: c'è un conflitto perenne, e la cronaca è spesso foriera di tali spargimenti di sangue da rendere ostico qualsiasi confronto con i linguaggi di genere. Il governo non agevola poi operazioni di questo tipo e i pur blandi fermenti si sono sempre dovuti scontrare con una realtà produttiva difficile. Contro ogni convinzione si sono però mossi Aharon Keshales e Navot Papushado, che, da perfetti indipendenti, hanno realizzato questo sorprendete Kalevet (“Rabies” è il titolo internazionale), primo film israeliano a rivendicare con orgoglio la patente dell'horror. I due hanno alle spalle una storia alquanto curiosa: Keshales insegnava infatti cinema e Papushado era un suo allievo. Un tipo vivace e, come lui, appassionato di horror: la persona giusta, insomma, per spingerlo a “osare”, e a compiere il “grande passo” che avrebbe portato entrambi a rompere il tabù nazionale. La sfida assume un particolare interesse se consideriamo che, pur privi di una tradizione forte alle spalle, i due neoregisti non sono caduti nella facile trappola dell'emulazione di modelli altrui, ma hanno invece ragionato su cosa significa fare horror nel loro paese e hanno realizzato un prodotto originale e pregno dei significati tipici della propria cultura.

La storia, come si può evincere dalla breve sinossi in apertura, si concentra su un gruppo di persone in un bosco, che è uno spazio al contempo ben definito, ma anche aperto, “poroso”, come si rivelerà essere il racconto. Sebbene sia abbastanza evidente un lavoro di scrittura ben elaborato e intelligente, la prima parte sembra infatti procedere in maniera reticente, e suscita nello spettatore quel senso di spaesamento tipico di chi si chiede dove il racconto voglia andare a parare. I personaggi entrano e escono di scena come su un proscenio teatrale, i dettagli più importanti spesso si rivelano essere quelli in secondo piano, mentre l'attenzione è deviata da dialoghi apparentemente futili che giocano di sponda con le aspettative dello spettatore. Il montaggio, dal canto suo, è preciso nello “staccare” da una situazione all'altra sempre nell'attimo in cui sembrano emergere dei dettagli in grado di rendere più chiari i fatti. È una manovra sagace, che costeggia i perni del racconto e li lascia maturare nei giusti tempi, dando al tutto la sensazione di procedere un po' per improvvisazione, un po' per inerzia.

Nel frattempo iniziano a emergere i tratti tipici del genere, che guardano alle dinamiche dello slasher movie, iscritte però sugli scenari soleggiati del survival horror (l'intera vicenda si svolge infatti alla luce del sole). Ma è nel conforto dei cliché che i due registi giocano bene le loro carte: quando il body count inizia, infatti, le morti avvengono più che altro per la stupidità delle azioni commesse dei personaggi, per i loro errori, o per l'effetto inesorabile del caso e di una naturale diffidenza che sembra permeare l'ambiente. Il bosco, già di per sé, è pieno di trappole e mine, ma poi interviene tutta la sovrastruttura fornita dalle nevrosi dei personaggi, dai loro conflitti che lasciano emergere una latente tensione sessuale: ognuno ha un problema sentimentale o parentale alle spalle, oppure prova un desiderio per qualcuno, a volte i legami si confondono, i fratelli diventano amanti... tutto si accumula, e l'effetto è sempre più spiazzante.

Alla fine si chiarisce l'intento dei due autori, di come questo horror non sia un meccanismo di genere tradizionale, ma una sorta di commedia nera che rispecchia l'umorismo irridente tipico della cultura ebraica. Come un Polanski più divertito e meno hitchcockiano, Keshales e Papushado riescono infatti a ridere delle debolezze tipiche della propria realtà. Sebbene non manchino momenti genuinamente scioccanti e scene violente che rendono il racconto una folle sabaranda di morti, su tutto domina una costante tensione sempre legata a un sottile divertimento, che mette alla berlina una società evidentemente percepita come profondamente violenta, al punto da contenere in sé i germi della propria autodistruzione.

Il che ci porta anche alla finalità ultima dell'horror, che è quella di incarnare uno sguardo critico nei confronti della realtà. Kalevet ci dimostra quindi come ci sia posto per l'horror anche nello scenario difficile di Israele, ma soprattutto come sia possibile sfruttare ancora una volta i linguaggi di genere per parlarci della realtà, anche quando gli intenti sembrano ben altri. C'è da sperare che il film sia in qualche modo distribuito: d'altronde, anche se uscito in patria a fine 2010, è giunto in America soltanto nel marzo scorso. Al momento è comunque rintracciabile in versione fansub con sottotitoli in italiano.


Kalevet
Titolo internazionale: Rabies
Regia e sceneggiatura: Aharon Keshales e Navot Papushado
Origine: Israele, 2010
Durata: 93'

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