L'alba del pianeta delle
scimmie
Will Rodman è uno
scienziato i cui lavori sono finalizzati a trovare una cura contro
l'Alzheimer per guarire il padre malato. Lo scimpanzé cui viene però
somministrato il farmaco sperimentale manifesta segni di violenza e
viene abbattuto, lasciando al mondo un erede, che Will adotta e cui
dà il nome di Cesare. Nel tempo Cesare dimostra di aver ereditato i
geni modificati della madre e dimostra una spiccata intelligenza,
crescendo perfettamente a suo agio con l'habitat umano. Almeno fino a
quando non aggredisce un vicino per difendere il padre di Will, che
dopo essere apparentemente guarito grazie alle cure del figlio inizia
a manifestare nuovamente i segni della malattia. Così Cesare viene
rinchiuso in un istituto, dove – maltrattato dagli uomini – si
vede contrastato anche dalle scimmie...
Al pari dei personaggi
che mette in scena, la saga del Pianeta delle scimmie dimostra
di aver saputo inaspettatamente superare i traumi provocati dal
pessimo remake di Tim Burton, e di essere stata capace di
riguadagnare la sua centralità nell'immaginario contemporaneo, in
modo intelligente e filologico. Questo nuovo capitolo azzera la
continuità della saga anni Settanta, si colloca come prequel diretto
dell'indimenticabile originale con Charlton Heston (non considerando
dunque tutti i seguiti) e, pur attingendo da un plot di base che
ricorda quello del quarto capitolo 1999: Conquista della Terra
(dove compariva per la prima
volta il personaggio di Cesare), riserva non poche sorprese.
Tutto ruota attorno
all'esigenza di determinare la propria identità, autentica linea
guida non solo dei personaggi, ma del progetto tutto: così come il
nuovo film deve infatti trovare la sua dimensione all'interno di un
immaginario preesistente, così i suoi protagonisti devono affrontare
una ricerca del proprio posto del mondo o addirittura della propria
stabilità razionale ed emotiva all'interno di un complesso di
relazioni minate dalla caducità del corpo. L'evoluzione è dunque
fisica e anche relazionale, al pari di quanto accade con Cesare che,
nel suo progressivo avvicinamento alla dimensione umana, deve anche
passare per un confronto con la legge della giungla, evidente nel
rapporto con le scimmie che condividono la sua prigionia. D'altro
canto, invece, il personaggio di Will cerca la propria specificità
di persona attraverso la ricerca medica, utile a guarire quel padre
che – complice l'Alzheimer – sta letteralmente perdendo la sua
identità. La sceneggiatura è abile nell'evitare tanto le
tentazioni superomiste dello scienziato che si crede Dio, quanto le
spinte meramente rivoluzionarie, che restano confinate al prototipo
settantesco.
I personaggi sono infatti
affrontati secondo una prospettiva squisitamente “interiore”, per
effetto della quale la ribellione di Cesare non è collegata agli
abusi dei carcerieri o alla diffidenza degli uomini, ma piuttosto
all'esigenza propria di trovare un posto nel mondo attraverso la
correlazione empatica con l'ambiente, i propri simili e l'umanità:
con sagacia l'approdo è ibrido, le scimmie fuggiasche saranno
qualcosa in più che semplici primati, una sorta di anello di
congiunzione con la razza umana, e prenderanno possesso di un alveo
di verde all'interno dello spazio metropolitano di San Francisco, a
metà fra la tradizione mitologica (la sequoia per molte culture è
un albero sacro) e la modernità ispirata dai palazzi.
Ciò che dunque si cerca
è una sintesi, la stessa che spinge il film ad aprire un arco
narrativo nuovo, ma interno alla tradizione tracciata dal primo
Pianeta delle scimmie, chiamato in causa attraverso piccoli
in-jokes; allo stesso tempo c'è un discorso prettamente
teorico e tecnico che la pellicola chiama in causa attraverso il
tour-de-force stilistico rappresentato dall'uso della
motion-capture e degli sfondi digitali su cui si muovono i
personaggi. Rifacendosi alla lezione di Avatar, il film mette
in scena il racconto di un istinto libertario attraverso una
messinscena estremamente orchestrata e tecnologica, che rende il
particolare look visivo del film antitetico al trionfo del make up e
dei trucchi prostetici della saga originale (e del remake burtoniano,
sorta di deriva ultima possibile per il lavoro dei maghi del
lattice): la sensazione è quella ancora una volta di sintesi fra la
leggerezza immateriale del digitale e la pesantezza di un corpo che
deve essere superato per dare vita a una sorta di smaterializzazione
empatica nell'ambiente circostante, capace per questo di rendere il
tutto estremamente coerente a livello visuale.
Non a caso la sensazione
che il film offre è quella di un viaggio costante in una dimensione
alterata, quasi lisergica, dove si incontrano istanze in continuo
conflitto, appianate dalla capacità di sintesi mostrata dal regista
Ruper Wyatt. Pertanto, l'ultimo movimento che il film mette in scena
è quello della ricollocazione della storia di Cesare in un
immaginario anni Settanta. La progressione mostra infatti un continuo
slittamento del baricentro narrativo da una modernità fatta di
esperimenti genetici e scenari asettici, a location più vicine alle
iconografie del passato (lo zoo, il Golden Gate, l'elicottero, gli
scontri di massa con la polizia), come se il film, nel riappropriarsi
di elementi tipici della mitologica della saga, volesse al contempo
farli propri, metabolizzarli e superarli.
L'evoluzione di Cesare si
sposa pertanto con una propensione a riprendere la lezione del
passato per poi farle fare un ulteriore passo in avanti, lungo una
strada che produca un risultato inedito nella sua familiarità: il
tutto in modo lineare e capace di risultare ad ogni modo
appassionante anche a uno sguardo in cerca del semplice spettacolo.
Una vera sorpresa, che porta ad aspettare con interesse il possibile
seguito.
L'alba del pianeta
delle scimmie
(Rise of the Planet of
the Apes)
Regia: Rupert Wyatt
Sceneggiatura: Amanda
Silver, Rick Jaffa, Jamie Moss (ispirata al romanzo di Pierre Boulle)
Origine: Usa, 2011
Durata: 105'
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