Rob Hanisey viene accolto nella Highberger House, un albergo destinato agli scrittori in cerca di successo, dove pensa di dedicarsi alla stesura del suo romanzo dopo essersi lasciato alle spalle una storia d’amore finita male. Il lavoro viene però costantemente interrotto da strani rumori che serpeggiano nelle pareti, finché Rob non ha anche la visione di una bellissima ragazza, Valerie, che dalla cima delle scale invoca il suo aiuto perché sia liberata da un mostro che la tiene prigioniera. Ben presto Rob scopre che l’origine di Valerie e della creatura è nascosta in un racconto che alcuni inquilini dell’albergo stanno scrivendo.
Mick Garris, autentica mente del progetto Masters of Horror, mette in scena con questo episodio (ottavo della seconda serie) un racconto di Clive Barker, dimostrando una inedita capacità di sintesi fra le visioni del collega inglese e le proprie. Chiunque abbia letto racconti come Figlio della celluloide, infatti, conosce bene la tensione barkeriana a veicolare l’energia repressa, scaturita dagli immaginari artistici, nella concretezza della carne, dando forma a un universo che unisca citazioni cinematografiche, letterarie o pittoriche con un erotismo esplicito, qui sintetizzato dallo splendido corpo di Valerie (la bellissima Clare Grant). Allo stesso modo è sufficiente leggere un racconto come Una vita nel cinema, scritto da Garris e pubblicato in varie antologie uscite anche in Italia, per rendersi conto di come pure il regista americano sia sensibile alle sensazioni collegate ai tormenti e alle frustrazioni della creatività negata (senza considerare che Chocolate, l'episodio da lui diretto per la stagione 1 dei Masters of Horror è pure incentrato sul tema dell'ossessione amorosa): da notare a tal proposito che, nel racconto sopra citato, Garris enuncia la sua idea di cinema, collegata agli universi di alcuni celebri registi horror, componendo quello che a posteriori si rivela essere un autentico manifesto programmatico della serie Masters of Horror.
La comune visione fra Garris e Barker permette dunque al film di offrirsi attraverso un approccio stratificato, che mette subito in conto possibili derivazioni dalla splendida serie di Rod Serling Ai confini della realtà (citata esplicitamente), per poi dedicarsi al rapporto fra immaginazione e realtà, spostando progressivamente l’ago della bilancia fra i due estremi. La storia diventa quindi in breve tempo una riflessione sugli archetipi classici della tensione attraverso la posa in essere di personaggi identificati da precisi cliché e da visi perfettamente iconici (il redivivo Christopher Lloyd, il tenebroso Tony Todd nella parte del mostro) fino ai due ruoli più significativi: quello di Valerie, classico esempio di bellissima donna in pericolo, e il mostro, derivato esplicitamente dall’universo dei B-movie, come minaccia archetipica da sconfiggere per raggiungere il successo.
Il corpo di Valerie (“un corpo fatto per l’amore”, viene specificato) diventa quindi l’obiettivo da raggiungere e risulta conteso dalle due parti in causa: da un lato lo scrittore fallito che non riesce a trovare l’ispirazione perché ancora afflitto dai traumi della relazione finita bruscamente; dall’altro il mostro che, pur non negando una esplicita attrazione sessuale per la ragazza, sembra principalmente preoccupato di legittimare la propria esistenza in quanto essere di carne, che si accanisce sulla carne (brandendo lascivamente Valerie e facendo a pezzi i suoi creatori in un tripudio di effetti splatter) per ottenere una legittimazione nel piano del reale.
Garris segue bene il canovaccio, di concerto con il direttore della fotografia Jon Joffin, ridisegnando gli spazi dell’albergo in modo da annullarne i confini e favorire le intrusioni fantastiche delle creature immaginarie, dando corpo alle fantasie del protagonista (che sogna di fare l’amore con Valerie) e, memore della lezione di Hellraiser, ambienta la parte conclusiva del racconto in un pittoresco Inferno costellato di cadaveri in macabre composizioni artistiche. Con il prosieguo della narrazione, inoltre, si esplicita anche l’intento metanarrativo che, oltre a dare corpo alle frustrazioni collegate al lavoro della scrittura e a rivelare i meccanismi della stessa, si preoccupa di riflettere sul labile potere fra creatore e sua creazione, istillando gradualmente il dubbio che l’intera vicenda non sia altro che la conclusione di una storia già scritta e di cui vediamo in atto l’estrema messinscena.
La natura stessa del protagonista, che scrive il suo romanzo con un automatismo derivante da non si sa bene quale fonte, viene progressivamente a vacillare insieme ai suoi ricordi, forse anch’essi parte della gigantesca messinscena in atto, e si innesta così un movimento opposto a quello iniziale: dalla carne si torna pertanto lentamente alla carta, in un progressivo disfacimento del corpo che trova nella visionaria (e inventiva) sequenza finale il suo apice.
La conclusione, ironica, ma che Garris mantiene comunque su una linea seria per non spezzare la tensione sino a quel momento accumulata, apre ovviamente la porta all’interrogativo maggiore: quanto un autore è davvero artefice delle proprie opere, e quanto invece ne è vittima? Di sicuro si tratta di una interessante dichiarazione d’amore per l’arte, che sembra meritarsi una sorta di autosufficienza rispetto al reale, e che in questo modo afferma la sua purezza rispetto alle ambizioni di parte.
La bestia
(Valerie on the Stairs)
Regia: Mick Garris
Sceneggiatura: Mick Garris, da un racconto di Clive Barker
Origine: Usa, 2006
Durata: 57’
Trailer di Valerie on the Stairs
Collegati:
Masters of Horror
Pro-Life: Il seme del Male
Deer Woman: Leggenda assassina
Imprint: Sulle tracce del terrore
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