Dopo la morte del fratello, Larry Talbot decide di tornare alla casa paterna, che aveva abbandonato anni prima fuggendo all’estero. Accolto con favore dalla comunità locale, Larry si invaghisce della bella Gwen: è con lei la sera in cui, dopo essersi fatto leggere la mano da alcuni zingari, viene attaccato da una belva che gli lascia una cicatrice a forma di stella sul petto. Da quel momento Larry ricade sotto l’influsso di una maledizione che lo porta, nelle notti di luna piena, a trasformarsi in una belva assassina.
Even a man who is pure in heart
and says his prayers by night
may become a wolf when the wolfbane blooms
and the autumn moon is bright
In attesa di assistere alla rivisitazione di Joe Johnston con protagonista Benicio Del Toro, riscopriamo volentieri L’uomo lupo originale che, seppur non possa vantare la progenitura del genere licantropico, sicuramente è il film-matrice per tutte le variazioni venute in seguito. Realizzato in un’epoca in cui già la Universal veleggiava verso quella deriva seriale che avrebbe poi prodotto la stagione dei cross-over e dei remake, L’uomo lupo appare come un perfetto film “di mezzo”, ormai distante dal periodo d’oro in cui gli horror della casa potevano vantare il mecenatismo di Carl Laemmle Jr. e artisti come James Whale avevano lo spazio necessario per veicolare la propria visione artistica in esempi di genere straordinariamente complessi e sfaccettati.
Nonostante il chiaro intento commerciale, volto a creare una nuova icona e a sfruttare opportunisticamente il richiamo e la capacità trasformistica dei Chaney, L’uomo lupo si distingue in ogni caso come esempio di un possibile horror capace di coniugare qualità ed esigenze spettacolari, tanto che, rivisto oggi, spiace che sia rimasto un esempio isolato e non sia stato lasciato libero di costituire un autentico modello per i suoi mediocri sequel. Si distingue in particolare l’ottima sceneggiatura di Curt Siodmak il quale, oltre a stabilire una serie di cliché che diventeranno da questo momento in poi regola inderogabile per ogni pellicola licantropica che si rispetti (a iniziare dall’utilizzo dell’argento come arma per distruggere il mostro), riesce a riflettere nei sottotesti del film il disagio del vivere tipico di un mondo che si andava affacciando al disastro della seconda guerra mondiale.
Siodmak, non a caso fuggito dall’Europa, istilla quindi nel suo Larry Talbot una inadeguatezza rispetto all’ambiente circostante che fin dalle prime battute lo connota come un “diverso”: la regia di Waggner gli sta dietro, spiegando il difficile rapporto tra padre e figlio principalmente attraverso i gesti imbarazzati e i silenzi fra i due, mentre il tentativo di corteggiare la bella di turno si stabilizza su uno strano triangolo amoroso destinato progressivamente a spingere Larry nel ruolo del terzo incomodo. La maledizione che dunque colpisce lo sventurato protagonista diventa non già il simbolo di un inaspettato destino, ma una consacrazione del suo essere outsider: la connotazione stevensoniana del male che si estrinseca con la mutazione fisica, chiaramente riflette anche l’incertezza di un periodo in cui l’intelligenza, il benessere sociale (la famiglia di Larry sembra chiaramente appartenere all’alta borghesia) e gli interessi che vanno al di là della sfera terrena (come l’astronomia) non si rivelano sufficienti a contenere le spinte bestiali che stanno contemporaneamente sorgendo nell’entroterra europeo (lo stesso degli esperimenti di Frankenstein peraltro).
Un altro aspetto interessante del film, poi, sta nella sua inedita visualità, anch’essa a metà strada fra la modernità delle automobili usate dai protagonisti e l’arcaica forza delle maledizioni di cui solo gli zingari riescono ad essere contemporaneamente veicolo e interpreti: il bel personaggio di Maleva, interpretato magistralmente dalla grandissima attrice russa Maria Ouspenskaya, diventa così l’autentica sintesi delle varie anime che serpeggiano nel racconto e reca i segni della sofferenza che la dannazione reca con sé e della solidarietà che emerge fra i reietti. L’uomo lupo di Lon Chaney jr. diventa pertanto una creatura che somma la malinconia del Frankenstein di Boris Karloff con la bestialità del Dracula di Lugosi, attore dal quale non a caso Talbot eredita il contagio. Il personaggio si muove in ambienti nebbiosi resi splendidamente dalla fotografia di Joseph Valentine e che aprono squarci fiabeschi nella realtà razionalista del racconto (in cui gli attacchi del mostro scatenano le indagini delle autorità), dove è possibile in pochi passi transitare dalla concretezza della magione familiare al pericolo dei boschi dove si nasconde la minaccia e dove il lupo manifesta la sua bestialità, lasciandoci liberi di pensare a una possibile trasfigurazione della fiaba di Cappuccetto Rosso.
In virtù di questi aspetti, la visione del film regala sensazioni multiformi e l’orrore insito nella mostruosa caratterizzazione del Chaney truccato da Jack Pierce, si stempera in una forte fascinazione per la composizione visiva, dove gli esterni risultano ben più importanti degli interni, a rovesciare la formula prediletta invece dalle storie di Dracula e Frankenstein con i loro castelli decadenti e i laboratori carichi di macchinari, espressione di un curioso barocchismo tecnologico.
L’uomo lupo
(The Wolf Man)
Regia: George Waggner
Sceneggiatura: Curt Siodmak
Origine: Usa, 1941
Durata: 71’
L’uomo lupo su Wikipedia
Larry Talbot su Wikipedia
Recensione di ClassicHorror.com (in inglese)
Intervista del 1970 a Curt Siodmak (in inglese)
Poster italiano de L’uomo lupo
Trailer originale de L’uomo lupo
Universal Monster Legacy dal sito del remake
1 commento:
un piccolo grande classico, non ricordavo più che c'era anche Bela Lugosi!
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