A pensarci pare quasi straniante, abituati come siamo a considerare il film come “proprietà” dell’autore, ma negli States la classica formula cinefila che si è utilizzata lungamente per indicare una pellicola comprendeva “titolo + interpreti + Studio di produzione + anno di produzione”. Per fare un singolo esempio, se prendiamo in considerazione Il mucchio selvaggio la formula da usare sarebbe: “Il mucchio selvaggio; William Holden, Ernest Borgnine; Warner Bros; 1969”. E il povero Sam Peckinpah? Non pervenuto! (un ottimo esempio dell’uso di questa formula si può sentire nel telefilm Remington Steele – Mai dire si, nel quale l’eponimo protagonista, interpretato da un giovane Pierce Brosnan, è un fervente cinefilo e la utilizza in ogni puntata).
E’ un chiaro retaggio del fatto che negli States per anni lo Studio e i divi sono stati sicuramente gli elementi maggiormente caratterizzanti di una pellicola e se per qualsiasi spettatore odierno può essere logico che in fondo i volti e i corpi risultino qualificanti, molto meno dovrebbe risultarlo anche il marchio produttivo. In fondo lo Studio System è qualcosa di lontano nel tempo, oggi il panorama è mutato non solo perché alcuni marchi sono scomparsi (come la RKO) o sono fortemente ridimensionati (pensiamo alla United Artists), ma anche perché manca l’idea di una identità che lo Studio riesce a imprimere ai propri lavori. La logica è sempre più commerciale, come i grandi registi indipendenti non mancano mai di ricordare: dove ieri c’erano i produttori (certamente interessati all’incasso, ma anche alla possibilità di realizzare pellicole in grado di resistere al tempo) oggi ci sono degli executive che hanno più l’aspetto di agenti di borsa e guardano principalmente all’industria come a una possibile fonte di guadagno, gli stessi stabilimenti passano per continue acquisizioni e fusioni con altre realtà e tracciare delle linee di demarcazione fra arte e commercio risulta sempre più difficile.
Il pensiero di questa mutazione torna prepotentemente alla mente se pensiamo come, in esatta controtendenza a questo andazzo, molte major continuano imperterrite a festeggiare gli anniversari della loro fondazione: il che da un lato è interessante poiché spesso si traduce nella possibilità di rivivere, attraverso le loro proposte, un interessante excursus lungo la storia del cinema, dall’altro perché dimostra come la memoria sia ancora tenuta in considerazione laddove si guarda unicamente all’incasso dell’ultimo weekend e la tradizione e l’esperienza vengano poste come elementi in grado di fare la differenza. L’idea che si vuole trasmettere, insomma, è quella di una solidità produttiva, che vuol dire certamente sicurezza per gli investitori, ma anche continuità cinefila.
Dati quindi per acquisiti tutti i distinguo di cui sopra, fra i marchi che maggiormente continuano a coltivare l’idea di una tradizione cui guardare per affrontare il presente, spicca la Warner Bros, che pare collocarsi un gradino più in alto dei concorrenti e riesce ancora oggi a porsi come realtà attenta al prestigio del proprio catalogo e alla coltivazione del concetto di “autore” tanto caro a noi cinefili. Basterebbe pensare che sotto la sua caratteristica “WB” ha lavorato per tanti anni un outsider come Stanley Kubrick e che attualmente è Clint Eastwood con la sua Malpaso a trovare nello Studio un interlocutore credibile, per lasciarci tirare un sospiro di sollievo e farci sperare che forse il buon cinema hollywoodiano è ancora possibile. Oppure rendersi conto di come un autore emergente quale M. Night Shyamalan, transfuga dalla Disney, abbia trovato proprio nella Warner il luogo adatto per realizzare il suo Lady in the Water per rinfocolare quella speranza.
Il che inevitabilmente ci riporta al passato, quando fu proprio la Warner a ridefinire i confini della violenza su schermo distribuendo due classici come Gangster Story (1967) di Arthur Penn (dove era possibile vedere i corpi devastati dalla violenza delle pallottole, cinque anni prima della terribile morte di James Caan ne Il padrino) e il già citato Il mucchio selvaggio. E che dire dell’indispensabile contributo fornito alla causa del cartoon attraverso le avventure dei Looney Tunes, dove hanno germinato talenti come Fritz Freleng, Chuck Jones e il magnifico Tex Avery, fornendo una credibile e irriverente alternativa al monopolio della Disney?
Attraverso ogni decennio, insomma, i Warner Studios hanno lasciato un’impronta significativa: i Cinquanta con Gioventù bruciata di Nicholas Ray; i sessanta con i già citati titoli di Penn e Peckinpah; nei Settanta lo Studio è stato capace di radiografare la nuova società metropolitana, in prospettiva critica attraverso l’ispettore Callaghan di Don Siegel (Dirty Harry, 1971) o Mean Street (1973) di Martin Scorsese, e cavalcare l’onda dei nuovi generi, come il kung fu con il classico I tre dell’Operazione Drago con Bruce Lee.
Fondato nel 1923 dai fratelli Harry, Albert, Jack e Sam Warner, oggi lo Studio si barcamena fra un progetto di Tim Burton e un capitolo della saga di Harry Potter, offre ai fratelli Wachowski la possibilità di dare forma agli universi di Matrix e Speed Racer e con l’acquisizione della New Line si assicura anche la distribuzione del prossimo The Hobbit (previsto per il 2010). Meno ondivago di Universal e Fox, lontano dalla volgarità fracassona della Sony/Columbia, insomma, lo Studio taglia il traguardo degli 85 anni in un modo che appare come qualcosa in più del semplice momento celebrativo: si spera sia invece un punto di partenza per rinnovare una tradizione molto felice.
Pagina della Warner Bros su Wikipedia Italia
Sito Warner Bros Italia
3 commenti:
Bello spunto il tuo e onore alla Warner che ci ha regalato così tanto piacere...però ne "Il mucchio selvaggio", sbagliando lo so, la Warner è l'ultima cosa a cui penso...
Why not?
Interessantissimo questo pezzo, tra l'altro dà anche modo di pensare a come si potrà evolvere in futuro il cinema e tutto ciò che ne concerne, case di produzione in primis.
Lunga vita alla Warner, che in effetti è una delle case più affidabili.
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