"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 21 luglio 2008

Haze: Il muro

Un uomo è solo. Prigioniero e ferito. Senza evidenti vie d’uscita. Stretto in un’intercapedine che come un labirinto sembra non avere fine, ma nasconde a ogni angolo e ad ogni snodo delle trappole. Una serie di inferni concatenati tra loro e caratterizzati da sofferenze. Non sa com’è arrivato lì né perché. Tutt’intorno corpi smembrati, ciò che resta di chi lo ha preceduto. Durante i suoi tentativi di uscire vivo da questa incredibile situazione ha delle visioni. Ma a un tratto un’altra persona, una donna, si ritrova con lui nella stessa situazione e i due tentano di percorrere insieme la via che forse li porterà alla salvezza. O forse alla comprensione. Se non semplicemente alla morte.

Quando fu presentato per la prima volta in Italia al Torino Film Festival 2005, Haze era parte del progetto “Digital Short Films by Three Filmmakers” promosso dal festival internazionale di Jeonju (Corea) che prevedeva, per l’appunto, tre cortometraggi, affidati ad altrettanti registi (gli altri due erano il coreano Song Il-gon e il thailandese Apichatpong Weerasethakul). In quell’occasione la durata era di soli 25 minuti, che però furono più che sufficienti per folgorare la platea e rivelare come Shinya Tsukamoto restasse e resti un talento ben restio dal farsi incasellare in una categoria ben precisa, al punto che il film, pur inserendosi nel solco dei suoi precedenti lavori, per il resto se ne distanziava alquanto, aprendo nuove interessanti prospettive nella sua poetica.

Successivamente Haze ha assunto la sua forma definitiva di mediometraggio da 48 minuti (e come tale è stato presentato al Festival di Locarno ed è poi giunto a noi in DVD) ampliando alcuni spunti narrativi e raggiungendo una dimensione che non disperde l’impatto viscerale e simbolico della prima versione, ma allo stesso tempo precisa e analizza con maggiore compiutezza alcuni elementi rimasti suggeriti in precedenza. Ciò che comunque conta è che la visione rimane un’esperienza fisica come poche, lancinante, spossante (chi soffre di claustrofobia farebbe bene ad astenersi), semplicemente dolorosa: il protagonista (interpretato dallo stesso Tsukamoto), durante il suo viaggio nei vari inferni che, barkerianamente, attentano alla sua integrità fisica sottoponendolo a un continuo supplizio e una sorta di conoscenza progressiva del dolore, riflette sullo spettatore le proprie angosce e il continuo stimolo cui tutti i suoi sensi sono sottoposti. Il particolare degli occhi spalancati nello spavento, ma anche nel tentativo di comprendere i confini dell’inferno dove l’uomo è sprofondato, allo stesso tempo ci atterrisce e ci guida, ci spinge a desiderare di “vedere di più” per poter magari razionalizzare un bombardamento dei sensi altrimenti troppo forte.

Ogni artificio cinematografico è dunque proteso a prolungare questa dolente estasi: la sporcizia della fotografia digitale, che impasta i contorni e conferisce allo spazio una opacità che lo rende inafferrabile, il sonoro che amplifica lo stridere dei denti sul metallo, le sensazioni quasi tattili che si provano vedendo le dita del prigioniero scorrere sulla ruvida superficie del muro in cerca di un’apertura, una via di fuga, fino al dolore palpabile della pelle graffiata dai chiodi o colpita da un pesante martello.

La semplicità dell’assunto è condotta con sicurezza al punto da far compiere il naturale processo evocativo che innesca nello spettatore possibili incroci con altre opere, altro possibile tentativo per razionalizzare l’esperienza: si pensa così al film-trappola stile Cube, o ancor più ai bambini de La casa nera di Wes Craven, costretti a vivere nelle intercapedini dell’abitazione: in fondo, sebbene maggiormente sganciato dal contesto urbano a lui caro, ancora una volta Tsukamoto riflette come il corpo sia la cartina di tornasole per comprendere i mutamenti dell’animo nella società in continua mutazione. Per questo stavolta la prigionia e la tortura divengono metafora dell’essere stabilmente prigionieri in una realtà che opprime e rende impossibile il raggiungimento della felicità: il dialogo con la compagna di prigionia (l’ottima Kaori Fujii, già in Tokyo Fist) esplicita infatti questi timori, ed evidenzia come il mondo esterno non sia meno claustrofobico, limitante e doloroso dell’inferno nel quale entrambi sono precipitati.

O ancora si pensa che Haze è stato realizzato poco prima di Hostel, con il quale condivide l’idea della tortura come linguaggio di un mondo (e il protagonista infatti pensa di essere vittima dei desideri di qualche ricco sadico); eppure mai distanza fu così maggiore dal più blasonato titolo americano, poiché qui la ricerca del dolore è messa al servizio di una visione d’autore completa e affascinante, che oltre a restituire maggiormente il sapore dell’incubo accumula simboli e suggerisce soltanto le spiegazioni, lasciando però grande margine di interpretazione alla discrezione del pubblico.

Ecco dunque che lo sbandamento si allunga oltre i confini dei cinque sensi per investire in pieno la sfera dell’irrazionale, dell’ipotetico, e arriva a titillare l’anima: non è soltanto la durezza delle torture e il tema della carne martoriata e umiliata a stordirci, ma anche la consapevolezza di non avere davvero chiavi interpretative per comprendere cosa sta accadendo. Le visioni del protagonista, per quanto ammantate di una caratura meravigliosa che con le sue tinte accese spezza la monocromia dell’ambiente buio, appaiono per questo dolenti e inquiete, ma ci forniscono un momentaneo appiglio, ci fanno tirare fiato, e quando svaniscono quasi ci fanno sentire abbandonati, traditi; sono però i piccoli momenti di solidarietà che si stabiliscono con la prigioniera a darci un respiro di calore più vero nell’oscurità, a farci credere nella possibile costruzione di un legame che dia senso al mondo renda e liberi dalla prigionia.

Il finale perciò, sebbene continui a lasciare oscuri molti punti, sembra proprio rivelare come lo sprofondare nell’esperienza abbia attinto proprio dall’oscuro dell’anima che conduce alla contrapposizione fra ogni persona; e che allo stesso tempo l’attraversare l’Ade sia stato utile per comprendere gli errori e ricominciare (forse) daccapo. Non a caso proprio qui avviene anche la riconciliazione con lo spazio, con la familiarità degli elementi, ancora una volta toccati, sfiorati, per avere la sensazione tattile del loro esserci: se però sia un lieto fine questo sta allo spettatore deciderlo.

Haze: Il muro
(Haze)
Regia e sceneggiatura: Shinya Tsukamoto
Origine: Giappone, 2005
Durata: 48’

Sito ufficiale giapponese
Ritratto di Shinya Tsukamoto

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Lo vedemmo insieme a Torino nella sala 3 del Massimo. Mi ricordo benissimo. Una visione sconcertante e catartica. Uno tsukamoto imperioso, un saggio di claustrofobia visiva assolutamente devastante. Quando la parola "genio" non è messa lì per caso. Magistrale.

Unknown ha detto...

Infatti, ricordavo bene la visione insieme (meno che fosse nella sala 3 :-), era uno degli ultimi giorni del festival.
Fra l'altro ci trovammo lì per caso, non era concordato. Come del tutto impreparati ci ritrovammo entrambi di fronte alla forza devastante del film!

Anonimo ha detto...

il finale è lieto, una felicità appena riconquistata, ma si tratta di una quiete comunque caduca.

Anonimo ha detto...

ho visto il film in streaming e si vedeva abbastanza male... qualcuno può spiegarmelo? non l'ho capito benissimo, soprattutto il finale