"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

venerdì 25 luglio 2008

Breve storia del Cinema Universale

Il cinema non è soltanto un film visto su uno schermo, ma è anche un luogo e un insieme di sensazioni legate a una precisa ritualità. Chiunque ha nel cuore almeno una visione particolare anche per il rapporto che si è stabilito fra l’opera filmica e l’insieme degli spettatori, corpo unico convenuto per assistere allo spettacolo e interagire con le sue emozioni. La visione in sala, momento di realizzazione piena per ogni cinefilo che si rispetti, è per questo un evento che, nella sua stabile reiterazione, non è mai uguale a se stesso e nei casi migliori finisce per diventare un qualcosa di non meno importante della storia impressa sulla pellicola.

Nei casi migliori capita addirittura che la sala assuma vita propria, trasudi della Storia passata e presente attraverso i ricordi di chi l’ha vissuta e finisca per connotare la vita di una città o un quartiere, donandogli un’identità e una forma. Il Cinema Universale di Firenze era uno di questi. La lontana collocazione geografica mi ha impedito di varcare materialmente la soglia di quel locale, ma la sua eco mi era giunta già da tempo, riverbero di un luogo “mitico” e noto oltre i confini cittadini per la sua particolarità.

L’Universale era un cinema d’essai, uno di quelli dove si proiettavano film programmaticamente volti ad arricchire l’immaginario popolare, uno schermo sul quale hanno transitato opere di Woody Allen, Pier Paolo Pasolini, Federico Fellini, ma anche John Landis, Totò, George Lucas, in una inebriante parata di eterogenei titoli che testimoniano di una gestione eclettica e intellettualmente vivace. Ma era anche un cinema popolare, verace, dove il pubblico era parte attiva nella condivisione dell’esperienza, con commenti forti che a loro volta costituivano un piccolo spettacolo aggiuntivo. Oggi può far sorridere pensare che l’inizio della proiezione fosse preceduto da un lancio di lattine su schermo; e allo stesso tempo l’idea che il locale fosse talmente malfamato da ammettere tossici potrebbe destare più di qualche perplessità.

La prosa particolarmente partecipe di Matteo Poggi, autore di questo libello celebrativo, è generosa nel trattare questi aspetti, che altrove definiremmo “controversi”, dell’Universale. Li considera come la naturale prosecuzione di un rapporto che il cinema intratteneva con la città, come naturale prolungamento di una vita fatta di contraddizioni. In questo senso è davvero esaltante notare come il libro, più che raccontare fedelmente e rigorosamente la storia di questo locale poi chiuso nel 1989, procede per piccoli aneddoti agganciati a una struttura sommariamente divisa in capitoli tematici (Dove si trovava l’Universale?; Che film c’è stasera?; Esce la protesta, entra il calcio; Semplicemente Romanone). L’incedere è libero, scandito dal tipico eloquio fiorentino, che alterna espressioni popolari e termini “forti”: a volte il racconto si sgancia completamente dalla sala per seguire i fatti all’esterno, creando un effetto spiazzante che può apparire anche confuso, sterile nella sua nostalgia, eccessivamente pindarico. In realtà quel che Poggi vuol chiaramente fare intendere è come l’Universale in sé propagasse e completasse le vite dei suoi avventori e quindi il racconto delle sue “gesta”, pieno di ironia e affetto, non vuole creare una reale dicotomia fra la vita dentro e fuori la sala, ma suggerire che la stessa formasse con il suo pubblico e con l’intero quartiere un tutt’uno.

Si crea quindi un gioco di rispecchiamenti che annulla la distanza fra interno e esterno e da questo punto di vista Poggi è bravo a mantenere l’equilibrio fra racconto di vita e cinefilia: il film è sullo sfondo, può apparire a torto un inutile orpello, ma in realtà ci si rende conto che è sempre centrale, è spesso il motore scatenante del fatto e comunque non è immune dal lanciare una sua influenza sugli eventi e dal creare un immaginario. Un elemento che commenta e caratterizza la vita di una comunità che si riconosce nella natura aggregante dell’andare al cinema e crea perciò una dialettica interessante fra lo schermo e il pubblico, fra la vita su pellicola e quella del quotidiano.

“Era un avvenimento, era talmente forte l’emozione di violare un luogo sacrilego, un posto per uomini duri che ancora ho nitido in me il ricordo, sensazione di far un qualcosa di più grande di me, un’impresa da vantarsi con gli amici…” racconta Poggi nella dedica finale ed esattamente come accadeva negli interni dell’Universale, con le sue sedie in legno, lo “schermo rattoppato” e i cessi che puzzavano, qualcosa di quella magia arriva anche a noi, facendoci rimpiangere di non aver potuto varcare quella soglia, sfuggire alle grandi mani della maschera Romanone e vivere l’esperienza di un cinema urlato ma vitale.

Il libro pertanto diventa importante non soltanto per quello che è (un lavoro semplice e di agile lettura) quanto per ciò che naturalmente rappresenta: la testimonianza più vera di un periodo storico in cui la sala era l’elemento centrale di una vita vissuta nel pieno del quartiere, in aggregazione, dove il cinema polarizzava l’attenzione. E dove autori oggi considerati d’élite da un pubblico svogliato e poco curioso erano patrimonio di vaste platee: arte popolare nel senso più pieno e vero del termine. Come nel “Cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore, come dovrebbe essere sempre per far comprendere il sottile piacere della visione nel buio, quando si è contemporaneamente da soli e in compagnia.

Breve storia del Cinema Universale
Scritto da: Matteo Poggi
112 pagine, 8 euro
Edizioni Polistampa

Sito del Cinema Universale
Il libro sul sito delle Edizioni Polistampa
Matteo Poggi sul sito delle Edizioni Polistampa
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