Da tempo siamo abituati a pensare a Michael Mann come a un grande regista in grado di elevare le forme del cinema noir a una statura tale da dare vita a un’epica metropolitana. Collateral in questo senso non fa eccezione e riesce a trarre, da una sceneggiatura di buon livello ma che in altre mani avrebbe dato vita a un thriller alquanto convenzionale, un autentico capolavoro. Gli snodi della storia pongono in essere un confronto fra due protagonisti attraversati da una sorta di specularità, come i due lati della proverbiale medaglia: entrambi brillanti nel loro lavoro, affabili nei modi, dediti alla rispettiva causa, capaci di muoversi in maniera disinvolta nello spazio di cui sono assoluti dominatori (quello degli ambienti chiusi per Vincent, della strada per Max) e anche caratterizzati da un rapporto non facile con i familiari (il padre violento per l’uno, la madre brontolona per l’altro). Ciò che è diversa è la loro attitudine verso il mondo, nei cui confronti il tassista è indeciso, incastrato in un ruolo di spettatore che lo pone ad aspettare sempre una futura occasione forse destinata a non vedere mai la luce; il killer invece è aggressivo, capace addirittura di slanci di rabbia degni di un animale feroce (come il coyote che a un tratto compare sul percorso del taxi in una splendida scena dal sapore onirico) e risoluto a portare fino in fondo la sua missione. Addirittura nonostante entrambi pianifichino le rispettive esistenze con grande meticolosità, sfruttando un computer per catalogare le informazioni a loro care, la sensazione più forte è che Max sia in parte vittima degli eventi, mentre Vincent riesca ad adattarsi alle situazioni, a improvvisare e “seguire il flusso”, accetti cioè quella percentuale di rischio che il titubante Max non riesce invece ad accollarsi. Questo perché Vincent, in quanto personaggio attivo nei confronti della realtà, ne conosce il lato più oscuro, l’avidità che spinge all’assassinio ma anche l’indifferenza che impedisce a un uomo morto nella metropolitana di ricevere soccorso in un tempo ragionevole.
E’ chiaro pertanto che la notte trascorsa a confronto con un simile individuo costituisce per Max una esperienza formativa che gli permetterà di maturare alcune caratteristiche vincenti e lo spingerà a mollare il lavoro perennemente temporaneo per prendere in mano la sua vita. E fin qui c’è la storia raccontata dal film e scritta da Stuart Bettie.
Poi si arriva al livello che invece investe direttamente il lavoro di Michael Mann e la parte tecnica del film, che il regista americano padroneggia con la sicurezza di un narratore navigato, sfruttando pienamente, come pochi sono in grado di fare, tutto il complesso di forze che ruota intorno alla costruzione materiale del film e che permette allo spettatore di godere di uno spettacolo pieno e appagante: ogni singolo elemento è perciò utilizzato in senso estensivo, traendo il massimo dalle sue potenzialità. Michael Mann in fondo è sempre stato attento soprattutto al rapporto fra l’estetica e il contenuto dei film e di come quindi lo stile sia importante per trasmettere determinate sensazioni al pari dei fatti inseriti in sceneggiatura: per questo motivo Collateral è un film che prima di tutto trasmette il piacere della visione, risulta affascinante e suadente allo sguardo, ma anche denso, quasi “corposo” nella estrema forza che ogni singolo fotogramma trasmette, e ogni scena, potenzialmente, diventa subito un pezzo di storia del cinema, così come il film si rivela immediatamente un classico già alla prima visione.
Mann utilizza quasi totalmente macchine da presa digitali per catturare il look di una metropoli che ha un sapore alieno, con i palazzi in vetro contrapposti a una strada infida, dove brulicano piccola e grande criminalità, le discoteche sono luoghi che uniscono frenesia fisica a grande senso di spaesamento e le luci disegnano una geografia di colori impastati e zone d’ombra davvero degne di un grande noir. Allo stesso modo è sfruttata espressivamente la musica, proveniente dagli ambiti più disparati (la radio del taxi, la discoteca, oppure da fonti extradiegetiche) e che in accordo non solo alla fotografia, ma anche ai movimenti degli attori, trasmette il senso di una danza, di un muoversi ritmico e armonico delle inquadrature, ma anche l’alienazione piena della metropoli: proprio la sequenza in discoteca, cadenzata dal remix di Ready Steady Go di Paul Oakenfold, è destinata da questo punto di vista a restare negli annali.
Gli attori, infine, che non sono soltanto dei corpi iconici sui quali il regista si diverte a giocare (basti pensare al look assolutamente inedito di un Tom Cruise brizzolato che sembra scaturire direttamente dalle intercapedini della città di vetro e acciaio), ma anche figure dove ogni dettaglio, dal modo di vestirsi, a quello di muoversi e di pronunciare ogni battuta (e per fortuna il doppiaggio italiano è ottimo) apporta qualcosa allo stile e all’impatto visivo del film amplificando il senso di un’esperienza piena che in un solo fotogramma già contiene la forza di tutta la storia e di tutto il mondo che interessa a Mann. Quello che rende il film assolutamente imprescindibile.
(id.)
Regia: Michael Mann
Sceneggiatura: Stuart Bettie
Origine: Usa, 2004
Durata: 155’
Approfondimento sulla colonna sonora
Sito ufficiale americano
Fansite di Tom Cruise (in inglese)
2 commenti:
Capolavoro assoluto, e non ritengo di esagerare.
Idem come sopra. Un capolavoro. Quelle splendide riprese aeree in notturna, quel ritmo concitato nelle scene d'azione, il volto scavato di cruise, una regia da manuale puro. Mann nell'olimpo.
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