Sono passati più di trent’anni dalla sua uscita nelle sale, eppure un film come Ma come si può uccidere un bambino? resta sconvolgente a ogni visione e in grado di ricordarci quanto potente possa essere il cinema quando tocca i nervi scoperti della società. Particolare ancora più sorprendente se consideriamo come il regista Narciso Ibáñez Serrador sia una figura poliedrica, a cavallo fra America e Europa (nato in Uruguay, si è in passato diviso fra la Spagna e l’Argentina), che si è fatto conoscere presso il grande pubblico come brillante autore e conduttore televisivo (Lucio Fulci lo definì “una specie di Pippo Baudo ma senza il parrucchino”). Siamo insomma di fronte a una di quelle particolari figure che ispirano un rapporto di fiducia attraverso un contatto quotidiano con il pubblico, ma che poi preferiscono volgersi al cinema per indagare, attraverso linguaggi di genere, il lato oscuro della realtà. In effetti, a pensarci bene, il tema di Ma come si può uccidere un bambino? è proprio questo, il rapporto con la realtà e con i pregiudizi che ci relazionano ad essa. Il titolo in effetti è a dir poco programmatico: l’infanticidio è un tabù a ragione impresso in tutti noi, salvo essere scelleratamente contraddetto nel momento in cui le persone diventano numeri e la guerra non distingue fra categorie, razze o generi. Pertanto il film si apre con una parte documentaria che illustra le giovani vittime dei conflitti in giro per il mondo e poi incentra la sua azione su una coppia di stranieri in terra straniera, Tom e Evelyn, dal background inequivocabilmente settato su livelli pregiudiziali (gli italiani vengono da loro definiti facilmente “fascisti”). Il non detto è particolarmente importante in un film che preferisce seminare segnali, lasciar intendere che forse il viaggio dei due turisti inglesi in Spagna è dettato dalla voglia di ritrovare un’armonia in un rapporto complicato dall’arrivo di un terzo figlio non voluto. O forse semplicemente i due hanno bisogno di staccare dal loro quotidiano affrontando una terra da loro vista come esotica (altro esempio di semplice pregiudizio).
L’incontro con la comunità di bambini dell’isola di Almanzora ovviamente mette in discussione il sistema di valori dei protagonisti e dello spettatore, rovesciando il ruolo buono/cattivo (o meglio, vittima/carnefice) sia di segno che di significato: la ribellione dei bambini al mondo degli adulti che li rende vittime preferenziali in ogni conflitto è infatti condotta nel segno dell’innocenza. Non a caso alla base del film c’è un libro di Juan José Plans, “El juego de los ninos” [Il gioco dei bambini], che sottolinea come i bambini del film commettano le loro atrocità non nel segno della vendetta e della rabbia, ma del cambio di prospettiva: uccidere come giocare, ai danni di una vita (adulta) che non ha più senso. E’ questo l’aspetto più sconvolgente di un film che Serrador imbastisce attraverso una tensione costante che passa dallo stile documentaristico della prima parte (dove vengono riprese alcune feste tradizionali) a uno più vicino al genere del thriller o del catastrofico d’invasione: alcune recensioni a questo proposito hanno mosso dei paragoni con Gli uccelli di Hitchcock e in effetti il film non costruisce particolari gerarchie fra i bambini, ma rende tutti loro una minaccia concreta eppure indistinta, che nel numero trova la forza di perpetuare la violenza.
Serrador utilizza parallelismi azzeccati: i bambini giocano alla “piñata” (gioco tradizionale in cui una persona bendata deve rompere con un bastone una pentola tenuta in alto con una corda) durante la festa nel paese e poi nell’isola reiterano lo stesso rituale con un cadavere e una falce! Sfrutta poi magnificamente gli ambienti e lo spazio scenico, alternando la desolazione della città abbandonata con interni labirintici, che sembrano quasi restituire l’idea di un intestino al cui interno si gioca la partita della civiltà, dove, per l’appunto, i valori sono messi in discussione. Ed è bravo a giocare la carta del multiculturalismo (i due protagonisti sono inglesi, i comprimari spagnoli e fra le donne assassinate c’è anche una turista tedesca) per far capire come la battaglia dei singoli sia un’allegoria di un mondo intero le cui divisioni generano continuamente conflitti.
Ma, oltre a tutto questo, Serrador torna a porre l’accento sui pregiudizi e sui tabù, poiché, sebbene vittime, Tom e Evy non riescono a “uccidere un bambino”, non riescono a trovare inizialmente la forza di ribellarsi ai loro carnefici smascherando l’ipocrisia di un modo di pensare preconcetto che all’istinto di conservazione (prevalente in Tom, meno in Evy) preferisce l’osservanza dei tabù. Serrador da questo punto di vista pone i suoi protagonisti di fronte a delle scelte, ma non giudica il loro operato, segue con partecipazione la vicenda e connota i bambini dell’isola come una sorta di razza aliena vittima da un contagio (nell’unica scena prettamente ascrivibile al racconto “di genere” li vediamo “scambiarsi” la possessione osservandosi negli occhi), ma li osserva al contempo con una certa oscura fascinazione, lasciando che sia lo spettatore a risolvere il dilemma se il tabù è più forte dell’istinto alla salvezza o meno.
Il risultato è un film scioccante che non offre appigli, doloroso e lacerante quanto allo stesso tempo connotato da una selvaggia bellezza, che ha fatto scuola producendo anche una serie di epigoni (il più noto è il racconto di Stephen King, “I figli del grano”, dal quale sono stati tratti alcuni film) e che continua a seminare ancora oggi (la Bubblegum Gang di giovanissimi teppisti dei due Hostel ne è un esempio), senza perdere per questo la sua forza e la sua attualità.
Ma come si può uccidere un bambino?
(¿Quién puede matar a un niño?
Regia: Narciso Ibáñez Serrador
Sceneggiatura: Narciso Ibáñez Serrador (con lo pseudonimo di Luis Peñafiel) dal libro “El juego de los niños” di Juan José Plans
Origine: Spagna, 1976
Durata: 106’
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