C’è sempre una strana emozione che attraversa le canzoni di Max Gazzé: apparentemente così semplici eppure così profonde, lasciano trasparire una poesia timida, discreta, affine alla bizzarra figura del loro autore e interprete, moderno menestrello, un po’ poeta, un po’ abile giocoliere delle parole. Come dice in fondo il titolo di una delle sue canzoni più famose “Una musica può fare” e può stimolare un immaginario, delle situazioni, delle figure.
Con “Il solito sesso”, presentata all’ultimo Festival di Sanremo e inclusa nel nuovo album “Tra l’aratro e la radio”, Gazzé ci presenta un’immaginaria dichiarazione d’amore telefonica che uno sconosciuto rivolge all’amata, conosciuta poche ore prima, durante una festa. Il testo, scritto dal sodale fratello Francesco, è come sempre attento a non cadere nel banale attraverso metafore semplici ma ricercate, che imbastiscono una metrica di chiaro impatto. Contestualmente, la musica accompagna il tutto con sonorità a tratti jazz che non rinunciano però a quell’atmosfera generale orecchiabile che permette al brano di essere memorizzato con facilità. Il titolo, che si riferisce alla preghiera rivolta alla donna affinché non consideri quelle parole unicamente finalizzate a un rapporto sessuale, ribadisce la discrezione, l’agire timido del Gazzé cantante: l’amore non chiede nulla in cambio se non la possibilità di essere espresso.
Le immagini che si evocano sono quindi quelle di un sentimento talmente sincero da risultare naif, quasi desueto in quest’epoca urlata e che perciò volge al passato, cita “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli, ma fa tornare in mente anche altre celebri “telefonate musicali” come “Piange il telefono” di Domenico Modugno (paragone già avanzato dai geniali Elio & le Storie Tese nella loro esecuzione del brano al “Dopofestival”) o, con maggiore distanza, “Buonasera dottore” di Claudia Mori & Alberto Lupo. Per certi versi è come se Gazzé riprendesse in fondo i due elementi essenziali di entrambi i modelli, ovvero il lirismo di un amore che vuole travalicare il semplice momento per diventare metafora di un sentimento assoluto, e una velata ironia che scorre sottotraccia. Ironia che si palesa materialmente nel finale, quando la conversazione viene chiusa in modo quasi brusco, sancendo la prospettiva del tutto personale e intima della poesia, che si autoalimenta quasi senza bisogno dell’interlocutore: è un mondo in prima persona quello che in effetti Gazzé mette in piedi, una visione personale e per questo soltanto sua. Ancora una volta, è una visione che chiede soltanto di poter essere espressa.
Allo stesso tempo, però, questa visione non diventa mai compiaciuto esercizio di stile, così come la musica del cantante romano non è mai intransitiva, ma anzi capace di divertire e rendere il pubblico partecipe, come potrà testimoniare chiunque abbia avuto la fortuna di assistere a uno dei suoi concerti.
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