"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

sabato 22 marzo 2008

Incident at Loch Ness

2003. Una troupe che sta realizzando un documentario sul regista tedesco Werner Herzog segue i preparativi di un suo film sul mito del mostro di Loch Ness. Le cose non vanno come previsto: molti sono i problemi logistici e inoltre il produttore Zak Penn vuole trasformare il documentario in un’opera spettacolare e commerciale, all’insaputa dello stesso Herzog. La produzione lentamente si sfalda, ma l’avventura prosegue con risvolti inaspettati che vendono il mostro coinvolto direttamente…

Lo scorso gennaio il Museo del Cinema di Torino ha dedicato un omaggio al grande regista Werner Herzog con una retrospettiva integrale di tutti i suoi lavori. Un ottimo pretesto per indagare a fondo la sua poetica e la lunga avventura di un cinema contraddistinto da sfide estreme, condotte però con una grande moralità e fiducia nella settima arte. A ideale completamento di un percorso artistico ormai quarantennale, può giungere opportuna la riscoperta di questo gustoso film, costruito sul modello del finto documentario, a metà strada fra Lost in La Mancha e The Blair Witch Project. Come il primo, infatti, il film racconta le riprese di un progetto incompiuto (che nel caso specifico è però del tutto inventato), mentre dal secondo è ripresa la struttura narrativa da reportage sulle orme di un Mito che si rivela fin troppo pericoloso…

La pellicola rappresenta l’esordio registico di Zak Penn, sceneggiatore hollywoodiano, specializzato in blockbuster stratificati e intelligenti come Last Action Hero e X-Men 2 e quindi personalità poliedrica e interessante, che in questo caso riesce a far viaggiare il suo prodotto su più binari, in modo divertente ma anche molto arguto. Il film, infatti, vuole essere innanzitutto una riflessione sull’opera di Werner Herzog (anche produttore), che con grande autoironia, ma anche grande cognizione del proprio mito, si è messo in gioco ripercorrendo non solo i tratti tipici del suo percorso autoriale, ma anche tutte le leggende costruite intorno alle lavorazioni più estreme della sua carriera (prima fra tutti il rapporto burrascoso con Klaus Kinski che lo avrebbe spinto a dirigere l’attore con una pistola in pugno!).

Il film quindi esplora l’approccio di Herzog a una dimensione al contempo fisica e metafisica del cinema, fatta di immersione nella realtà senza sovrastrutture che permettano al mezzo di inficiare la sostanza della sfida: in questo caso l’obiettivo non è tanto scoprire quanto di vero ci sia dietro la leggenda del mostro di Loch Ness (che anzi viene dato certamente per falso), quanto comprendere i motivi che spingono l’uomo a creare e a credere in queste figure leggendarie. Come enunciato dallo stesso Herzog il film vuole esplorare la componente estatica insita nel Mito, cioè gli elementi che, partendo dal reale, promanano un’aura fantastica in grado di affascinare la gente al punto da sospendere ogni incredulità. Per fare questo Herzog intende agire senza schemi preordinati, con sopralluoghi sul posto e interviste a gente locale: l’analisi parte dunque dagli elementi del reale in una sorta di ideale ricostruzione del percorso che ha portato il luogo a produrre la sua leggenda. Lo stile di regia adottato dal film è in questo senso molto affine all’opera stessa del regista e ai più recenti lavori come Il diamante bianco o Grizzly Man, capaci di utilizzare il linguaggio del documentario in senso lirico, per cogliere i sentimenti che animano i protagonisti nel loro rapporto con l’ossessione e rappresenta un interessante excursus sui metodi registici (quelli sì reali) dello stesso Herzog.

L’obiettivo del produttore (interpretato proprio da Zak Penn), invece, è quello di “elevare” il cinema herzoghiano a una qualità maggiormente soprannaturale inserendo elementi iconici (la troupe viene costretta a indossare delle tute per essere riconoscibile) ed exploitation (una modella in bikini è ingaggiata nell’improbabile ruolo di addetta al sonar, mentre un modellino di mostro viene utilizzato in acqua). Il tutto per avvicinare il regista tedesco a un pubblico maggiormente hollywoodiano. La sfida fra le due personalità sancisce come il produttore americano consideri la menzogna come parte integrante dell’artificio cinematografico, che perciò deve essere assecondato acriticamente per dare al pubblico ciò che lo stesso vuole. Ma Herzog si rifiuta poiché non accetta l’inganno insito in questo approccio, a ribadire la caratura morale del suo cinema. 

Il lungo “duello” fra i due si caratterizza quindi come un divertente saggio sulla distanza che separa l’indipendenza artistica dalla commercializzazione di un film visto come prodotto, e quindi come un vero e proprio monumento all’opera di Herzog, ma anche come una sua possibile corruzione, una messa in crisi che viene ribadita dallo stesso regista (e dagli altri membri della troupe) attraverso una serie di interviste a camera fissa, realizzate dopo i fatti del 2003, ma integrate al girato a mo’ di commento.

La seconda parte del film cambia registro e, oltre a vedere la produzione sfaldarsi progressivamente, immette l’elemento fantastico giocando sui toni del blockbuster catastrofico e del film horror in puro stile Lo squalo: Herzog e soci si ritrovano pertanto in balìa del mostro fino all’affondamento della nave. In questo segmento del film si produce un rimescolamento di carte a dir poco esaltante poiché Herzog diviene personaggio del suo film (e quindi di quello di Penn), ma anche consapevole artefice di una realtà dove il Mito si è materializzato e dove lui è il testimone destinato a filmarlo. Non a caso nel finale Herzog si dichiara deluso da un’avventura che ha superato la componente estatica per diventare realtà in tutta la sua drammaticità (due membri della troupe perdono la vita nell’impresa). Un’esperienza che costituisce una sorta di contrappasso condotto sul filo dell’autoironia ma che non risparmia un certo retrogusto amaro, a sancirne una certa natura catartica.

La confusione tra verità e finzione traghetta dunque il cinema herzoghiano nelle maglie di quello caro a Zak Penn: non solo infatti il suo personaggio riesce alla fine a stringere fra le mani proprio quel film spettacolare da lui tanto sognato, nella forma di questo sgraziato making of, ma la confezione generale omaggia ancora una volta il gioco di scatole cinesi e l’attenzione a una realtà a strati dove menzogna e finzione sono parte integrante della verità. Incident at Loch Ness, come Last Action Hero rappresenta quindi un omaggio critico al cinema come enorme meccanismo di finzione cui è delegato però il potere di rappresentare i sogni dell’uomo e che proprio nel disvelamento della sua vacuità trova la propria grandezza.

Il risultato è un film che, per nulla sminuito da questa sovrastruttura teorica riesce a essere soprattutto emozionante, divertente e, perché no, anche pieno di tensione. Un intelligente esempio di come si possa analizzare e omaggiare con ironia l’opera di un maestro del cinema come Werner Herzog creando allo stesso tempo un prodotto autonomo e appassionante.

Purtroppo inedito in Italia, il film è stato proiettato al Ravenna Nightmare Film Fest 2005 ed è disponibile in ricche edizioni DVD all’estero. Se ne raccomanda caldamente la visione.


Incident at Loch Ness
Regia: Zak Penn
Sceneggiatura: Zak Penn, Werner Herzog
Origine: Uk, 2004
Durata: 94’

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