"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

venerdì 23 ottobre 2009

Transformers pubblicitari

Transformers pubblicitari

Il video che da ormai due settimane compare nel consueto spazio dedicato alle Visioni dalla Rete, mostra uno spot pubblicitario realizzato per promuovere l’arruolamento nell’esercito di Taiwan. Come si può notare spicca la presenza, all’interno di quello che è un vero e proprio cortometraggio, di alcuni robot chiaramente ispirati ai Transformers del film realizzato nel 2007 da Michael Bay, e tornati quest’anno sul grande schermo con il sequel La vendetta del Caduto (che proprio in questi giorni arriva in DVD e Blu-Ray in America, da noi l’uscita è prevista per il 3 novembre).

L’impatto spettacolare garantito dalla presenza dei giganti meccanici rende il tutto estremamente cinematografico e peraltro è facile rendersi conto di come la scelta dei tempi e delle musiche, nonché di alcuni tagli di inquadrature, fino ad arrivare a palesi citazioni nei movimenti degli stessi robot (basti considerare quello che capriola sul campo di battaglia), riecheggi in maniera precisa gli stilemi visivi dei due film di Bay, con tanto di apparizione finale del bambino che riconduce la guerra a una dimensione di “gioco”, in modo da rendere la carriera militare come una affascinante prospettiva per i più giovani.

In sé questo può apparire, a seconda di quanto spiccato sia il proprio antimilitarismo, come una pericolosa deriva glamour dell’immaginario bellico (componente peraltro presente anche negli stessi film di Bay) oppure come un interessante incrocio di immaginari: a questo proposito, infatti, chiunque abbia avuto mai occasione di vedere uno dei video promozionali che le stesse forze armate italiane usano per propagandare la loro immagine e per motivare i giovani all’arruolamento, si sarà subito reso conto di come essi traggano notevole ispirazione dalle pellicole cinematografiche in cui emerge una componente militarista alquanto spiccata (un esempio possono essere i sequel di Rambo). L’azione è drammatizzata da un uso enfatico delle musiche e l’idea che si restituisce è quella di una macchina efficiente e potente, un organismo perfettamente funzionante del quale è invitante fare parte.

Agganciare dunque la promozione militare alle pellicole dei Transformers non appare un’operazione peregrina e sicuramente l’appassionato può trarne un superficiale divertimento, oltre che una testimonianza del favore che attualmente circonda i robot della Hasbro, di nuovo al culmine della popolarità dopo un periodo di appannamento. Questo passaggio è interessante anche perché ci porta a un successivo incrocio di immaginari, ricordandoci che, in realtà, i robot in questione hanno già sfruttato il veicolo pubblicitario per riverberare la propria fama. Il riferimento è agli spot realizzati per le automobili della Citroen: ricorderete tutti, infatti, il celebre commercial in cui il modello C4 assumeva forma robotica per poi lanciarsi in un divertito ballo, rompendo così la monotonia della sua stasi in un vuoto parcheggio.

Lo spot in questione, risalente al 2004, vanta la regia di Neill Blomkamp, regista sudafricano giunto di recente agli onori della cronaca per la regia dell’interessante ma confuso film fantascientifico District 9. Abbiamo quindi un autentico ribaltamento di segno del percorso sin qui descritto: la seriosità del bellicismo cinematografico di Bay (plaudita dagli stessi generali delle forze armate americane, che hanno vantato un'impennata negli arruolamenti proprio grazie al successo di Transformers) trova un suo controcanto anticipatore nella demistificazione cara a Blomkamp, che sfrutta il robot non per rendere glamour l’estetica militare, ma anzi per evidenziare in maniera ancora più netta la natura ludica dell’idea originale, ovvero quella del veicolo che smette di essere una semplice macchina per assumere invece comportamenti e tic molto più vicini a quelli dell’essere umano. Se poi consideriamo come Blomkamp, con la sua pellicola d’esordio, abbia voluto porre in essere una riflessione metalinguistica sulla distanza fra reale e immaginario e fra gli stilemi di generi diversi, il discorso si ispessisce a apre la strada a riflessioni ancora più profonde e interessanti sui possibili cortocircuiti sensoriali che questo percorso offre.

Restiamo però al fulcro del discorso: lo spot della Citroen C4 (che si vocifera peraltro abbia fornito non poche idee proprio a chi, a Hollywood, avrebbe poi realizzato il primo Transformers) ha dato infatti vita, nel tempo, ad alcuni sequel che accentuano la componente ludica dell’idea, mostrandoci, ad esempio, un Transformer pattinatore o corridore, fatto che di per sé rivendica in ogni caso l’intenzione di collegare il concept estremamente duttile del robot trasformabile a una idea sempre dinamica e vitalistica. In questo senso la distanza con lo spot taiwanese si assottiglia perché, se diversi sono i contesti, simili sono gli intenti, che mirano a smussare possibili derive problematiche per evidenziare esclusivamente gli aspetti positivi e divertenti del “prodotto” che si intende promuovere.

A rimarcare dunque il solco ci pensa l’imprevedibilità degli appassionati, contaminati da questo immaginario che la pubblicità sparge nel presente, e che affrontano la questione attraverso i codici narrativi dei fan-film. Pertanto gli spot Citroen vengono omaggiati da alcune divertenti parodie in cui vediamo autentici rottami travolti dalla foga della trasformazione o persino una enorme coccinella robotica improvvisare il celebre ballo, all’interno di uno spot collegato alla promozione del serial parodistico di MTV Emo Rangers (possibile rimando alle Beast Wars Transformers?). L’ironia e la demistificazione alla fine vincono la partita e rivendicano il proprio diritto a dire l’ultima parola.

Spot per l'arruolamento nell'esercito di Taiwan
Lo spot originale della Citroen C4
Versione estesa dello spot
Sequel con il Transformers pattinatore
Altro sequel con il robot corridore
Parodia 1: Fiat Transformers
Parodia 2: Citroen 2CV Transformer
Parodia 3: Emo Rangers Coccinella robot Transformer
Dietro le quinte dello spot originale (in inglese)
Pagina di Wikipedia su Neill Blomkamp

sabato 17 ottobre 2009

Up

Up
 
Carl Fredricksen ha trascorso una vita felice insieme all’inseparabile moglie Ellie, con cui sognava di raggiungere il Sud e le cascate Paradiso: dopo la morte della compagna di sempre, però, Carl è sprofondato nell’amarezza di un presente dove biechi speculatori edilizi vogliono strapparlo dalla sua casa e riescono a ordinare che sia internato in un ospizio. Carl però si ribella e con una miriade di palloncini solleva la sua abitazione dal terreno per dirigersi verso il sudamerica. Nella sua incredibile avventura trova l’inaspettato aiuto di Russell, un giovane boy scout intento a guadagnarsi la sua ultima medaglia per assistenza agli anziani.

 
La levità con cui i palloncini sollevano la casa dell’anziano signor Fredricksen è la stessa che guida la mano di Pete Docter nel realizzare un capolavoro come Up. La capacità della Pixar d’altronde, sta proprio nel suo essere capace di rivoluzionare le categorie cinematografiche canoniche dando l’impressione di raccontare una storia come tante (e quindi nel realizzare opere che sono già dei classici nel momento in cui escono). Ecco dunque che forse dovremmo cambiare la nostra prospettiva sull’operato della casa di produzione americana, e considerare i suoi registi e tecnici come cantori di un cinema elementale: Up è un film “aereo”, che veleggia fra le nuvole del suo folgorante corto introduttivo (Parzialmente nuvoloso) e guarda dall’alto il passato e il presente. Che sono i tempi dell’anziano protagonista, ma anche quelli del cinema.
 
E’ infatti difficile non vedere nella parabola di Carl e nel confronto transgenerazionale con il giovanissimo boyscout Russel una rilettura di temi al contempo eastwoodiani e spielberghiani. Fredericksen condivide infatti con il Walt Kowalski di Gran Torino l’incapacità di stare in un tempo che si è visto scivolare tra le dita: nel caso specifico ciò è avvenuto attraverso un amore di grandi speranze e di malinconici esiti. Qui il film gioca una delle sue carte più strabilianti, attraverso una parabola di vita raccontata in pochi minuti con delicatezza estrema e profonda empatia verso questo giovane/anziano sognatore che non riesce a diventare, nonostante tutto, totalmente incanaglito come il reduce eastwoodiano: proprio per questo, anzi, egli riesce a produrre quel colpo d’ali che trasporta la sua casa nel cielo regalandoci l’immagine simbolo del film, quasi uscita da un’invenzione chapliniana o dalla Disney del passato, magari presa dalle opere del sottovalutato Robert Stevenson (possibili associazioni potrebbero infatti essere il letto volante di Pomi d’ottone e manici di scopa o le magie di Mary Poppins), senza dimenticare il Maestro Hayao Miyazaki, che in casa Pixar è considerato amico e punto di riferimento.
 
D’altronde la posta in gioco è cercare di ritrovare il proprio posto nello scorrere incessante della vita e per questo l’avventura ha un che di iniziatico e al contempo di risolutivo, con un eroe anziano che tenta di perseguire il sogno perennemente procrastinato e si ritrova a confrontarsi con un giovane compagno, sorta di proiezione moderna del suo giovane io sognatore, e infine con l’idolo d’infanzia, che si rivelerà però un personaggio alquanto gretto e meschino. La dinamica oppositiva fra un’infanzia spensierata corrotta dalla verità pragmatica del mondo adulto rilegge, come specificato in precedenza, i temi del cinema di Steven Spielberg, ma la prospettiva rivoluzionaria è data dal punto di vista di un anziano. In questo senso Up diventa il film della maturità che Spielberg non è ancora riuscito a regalarci, in cui l’amarezza di un passato da superare si trasfigura nella necessità di costruire un futuro anche quando il tempo sembra ormai arrivato al proprio limite: la finalità, d’altronde, sta tutta nella rinnovata immersione all’interno del fluire temporale. 
 
Così Fredricksen non officia il proprio funerale rituale come Kowalski, ma al contrario abbandona suppellettili e memorabilia della sua casa-memoria per lanciarsi in un’impresa che finalmente davvero recupera lo “spirit of adventure” sognato da ragazzo per fermare la grottesca deriva di chi si poneva a modello di intraprendenza e invece è rimasto ossessivamente, quasi conradianamente, ancorato a una missione di velleitario riscatto. Il passaggio è simboleggiato in maniera struggente dalla scoperta delle foto inserite dalla compagna Ellie fra le “cose da fare”, in quella sezione del “Libro delle mie avventure” che immaginiamo Carl non avesse mai sfogliato, convinto com’era che quelle pagine fossero rimaste bianche a causa dei sogni mai avverati e dei risparmi accumulati ma spesi per riparare una gomma sgonfia. Qui Carl scopre che tante “cose da fare” avevano in realtà trovato la loro concretazione in una vita felice della propria normalità (che non vuol medietà, fatto che dribbla qualsiasi sterile accusa di “buonismo”) e che ora è tempo di andare avanti in una nuova avventura.
 
Qui, le sequenze con protagonista il povero “struzzo in technicolor” Kevin, rinnovano il sentore spielberghiano del baluardo di innocenza, come il mai dimenticato E.T. o il Bumblebee del primo Transformers, entrambi vittime della stoltezza umana. Così come il dirigibile fa pensare all’Indiana Jones (anch’egli impegnato in un confronto transgenerazionale) dell’Ultima crociata. Il cinema torna dunque centrale per descrivere la vita e la forza cinetica di un corpo anziano che però combatte, aiutato da improbabili invenzioni che spezzano la verosimiglianza che fino a quel momento ci aveva fatto credere quasi di trovarci di fronte a un possibile Live Action (sensazione acuita da un eccellente e realistico uso del 3D) per ripiombare nella fantasia dell’animazione che ci permette di credere a una bellissima favola di rinascita: ecco dunque l’irresistibile corte dei cani parlanti, con in testa il buffo Doug, anch’egli smanioso di trovare un proprio posto in una comunità.
 
Il finale però è ancora una volta reale, intimista, e permette ai due personaggi principali di dare finalmente compimento a una dinamica rimasta latente per tutta la durata della storia e di accettarsi come legati da un sentimento filiale. Capolavoro.

 
Up
(id.)
Regia e sceneggiatura: Pete Docter, Bob Peterson
Origine: Usa, 2009
Durata: 106’
 

giovedì 15 ottobre 2009

L’Annozero della tv

L’Annozero della tv

Si fa sempre un gran parlare di Annozero, nel bene e, naturalmente, nel male. Chi scrive ne è un estimatore palese da tempo: certo, come la proverbiale ciambella che non riesce sempre con il buco possono capitare puntate più o meno felici, ma ciò che in questo momento interessa è una qualità generale più particolare, percettibile lungo il particolare percorso che le tre puntate della nuova stagione (stasera andrà in onda la quarta) hanno sinora descritto. Un percorso sfaccettato, che si intreccia alla costante mutazione della moderna televisione (e, va da sé, della società tutta).

“Comunque la pensiate, benvenuti”. Con questa frase Michele Santoro apre ogni puntata della sua trasmissione, lasciando sottintendere la voglia di rivolgersi a un pubblico diversificato, stante però il suo punto di vista molto specifico sulle varie questioni che di volta in volta andrà ad affrontare. Si può infatti interpretare questa dichiarazione d’intenti in due modi: come un tentativo di rimarcare la differenza (“anche se la pensate diversamente da me”), ma anche come un’esortazione al confronto (“a prescindere da quale sia il vostro orientamento qui c’è spazio anche per voi”).

E’ una questione di punti di vista, peraltro, che trovano rappresentazione in studio attraverso gli esponenti dei maggiori schieramenti parlamentari, secondo una formula tipica del programma di approfondimento politico: lo spazio quindi diventa luogo di confronto fra due visioni differenti, da parte di contendenti che la pensano diversamente. L’obiettivo, non dichiarato ma palese, è naturalmente far emergere una verità, attraverso una formula narrativa basata su una scrittura “forte”, che tiene conto anche di esigenze puramente spettacolari, attraverso la scansione di singoli momenti e l’inserimento degli spazi pubblicitari (basti pensare al sempre atteso editoriale del giornalista Marco Travaglio).

Per questi motivi Annozero non sfugge ad alcune regole tipiche della Reality tv: piace (o non piace) perché racconta dei fatti, ossequiando allo stesso tempo delle caratteristiche perfettamente riconoscibili, è studiato nella composizione dei suoi casting e nell’atmosfera vagamente noir dello studio a luci soffuse, ben diverso, ad esempio, dalla luminosità esibita di un Porta a Porta o dalla natura vagamente pop delle scenografie di Ballarò, con le sue sedie di cartone, i murales e le sigle in animazione.

L’aspetto inevitabilmente più interessante di questa particolare dinamica reale/finzione si ottiene proprio quando la formula gioca con i suoi codici creando dei cortocircuiti percettivi, spesso inaspettati. Un esempio è la puntata di giovedì 1 ottobre, dedicata al “caso escort”, con la partecipazione dell’ormai nota Patrizia D’Addario. Quello che infatti è andato in onda è un autentico psicodramma collettivo, che ha offerto spunti molto pungenti e inquietanti sul senso delle cose della nostra società e sulla percezione che i protagonisti hanno rispetto al ruolo in cui sono ricondotti dall’attualità.

L’emersione di una verità nascosta, infatti, scontratasi con le resistenze dei singoli, che non vogliono contraddire la morale comune screditandosi agli occhi dello spettatore medio, ha prodotto un autentico rifiuto del sé: il capo di governo che si allieta con giovani donne e prostitute rivendica quindi il suo essere un "conquistatore", mentre il fatto pubblico diventa "gossip"; la prostituta a sua volta muta in una "escort" e grida "con dignità" la sua delusione per un favore che non ha ottenuto; dietro le quinte c’è poi l’ombra di un giornale (La Repubblica) che persegue un'inchiesta (giusta) principalmente perché intercetta i bisogni del suo potentato economico, mentre i giornalisti filoberlusconiani rivendicano invece il diritto di portare a galla il vero scandalo della sanità pugliese per trarre d'impiccio il loro capo.

E ancora: le giovani esponenti del PDL che gridano all'uso della donna e al malcostume del sistema difendendo però a spada tratta quella classe di governo che di quello stesso sistema si bea e che foraggia. La femminista che pure grida all'uso della donna e poi rivendica il modello-velina come esempio di emancipazione femminile.

Questa dinamica di rifiuto del sé, innestata sulla consueta formulazione “scritta” tipica del programma produce un senso di schizofrenia in cui, all’interno della commedia, nessuno recita il ruolo della maschera che pure indossa. I risultati di questo confuso gioco sono due: da un lato una forte sensazione di una realtà che ha completamente smarrito il proprio baricentro e dall’altra la scaltrezza di una trasmissione che riesce a sfruttare questo meccanismo in modo spettacolare radiografando perfettamente il caos. La puntata quindi ottiene uno share altissimo e, soprattutto, si inserisce senza alcuno scossone nel più grande percorso che Santoro aveva costruito a partire dall’appuntamento precedente (dedicato alla libertà di informazione e, quindi, al travisamento della verità) e che poi ha proseguito in quello successivo (la puntata sulla mafia in cui sono emerse altre verità e si è capovolto il ruolo del giudice Borsellino, da eroe al servizio dello Stato a vittima di un gioco delle parti che lo ha costretto nel ruolo dell’incomodo per lo Stato stesso).

Tutto questo naturalmente finisce per produrre una certa inquietudine in chi guarda, fatto che diventa uno degli autentici motivi di fascino del programma. D’altronde che si sia di fronte a uno spazio che ha ben presente l’importante e l’invadenza della finzione è palese sin dal titolo che rimanda al cinema (Germania Anno Zero): ma ora la finzione non è più quella della fiction, bensì quella di una televisione che da tempo ha minato la percezione comune lavorando contro le categorizzazioni canoniche.

L’inquietudine di fondo, naturalmente, sta nel fatto che l’operazione svolta da Santoro non diventa però un’operazione di pulizia del pensiero (non sempre almeno), che restituisca ai singoli i loro ruoli, ma che anzi sfrutta il loro rifiuto del sé per evidenziare il caos. Più che di tv verità, dobbiamo quindi parlare di tv sulla finzione. Una sorta di funerale del presente officiato in diretta.

Il sito di Annozero
Il sito di Michele Santoro
Il caso escort raccontato da Marco Travaglio

venerdì 2 ottobre 2009

The Informant!

The Informant!

Il biochimico Mark Whitacre lavora come manager per la ADM, una multinazionale dell’industria agro-alimentare. Nella speranza di scalare i vertici dell'azienda, Mark decide di rivelare all’FBI i traffici fraudolenti che vendono la stessa ADM e tutte le altre industrie del settore fare cartello per controllare illecitamente i prezzi di mercato. Ma quello che nessuno può sospettare è che Mark è un bugiardo matricolato e che ogni rivelazione nasconde segreti altrettanto compromettenti sulle sue tangenti intascate di nascosto. Una volta emerse, le sue colpe rischiano di minare alle fondamenta non solo la sua reputazione ma anche la stessa indagine dell’FBI.

Il cinema è una questione di bugie: narrare è in fondo mentire, anche quando, per un magnifico paradosso, si mette in scena una verità. Chi da tempo riflette sulle implicazioni sociali della menzogna è sicuramente George Clooney, che sta descrivendo con coerenza registica e produttiva un percorso sulla rappresentazione come elemento rivelatorio della bugia e sulla realtà che da essa scaturisce. Una sorta di parabola sulla perdita del senso delle cose in un mondo che preferisce rivoltare i principi in modo opportunista. Steven Soderbergh fa lo stesso, ma con un piglio differente, più scanzonato, tipico di chi, pur consapevole del perimetro che va a delimitare, si bea dell’artificio che gli permette di farlo e ciò rende il suo cinema più teorico, ma anche capace di trasmettere un divertimento più palpabile.

Non è un caso se l’incredibile vicenda di Mark Whitacre finisce così per assomigliare alle iperboliche truffe della banda di Ocean: stesso piglio glamour e un’attenzione a personaggi e interni che rende luoghi e volti elementi qualificanti della reale bugia che si mette in scena. L’operazione di The Informant! d’altra parte è mimetica, perché il film gioca con le aspettative dello spettatore secondo una dinamica che è quella del thriller, anche se poi il tono è quello della commedia dell’assurdo e il vero “cattivo” della storia è anche quello che attira le maggiori simpatie per una sorta di innocenza che lo porta ad autoconvincersi della sincerità delle proprie bugie.

Allo stesso tempo è palese l’intento di uno spazio scenico che rimanda a momenti storici differenti: l’acconciatura di Ginger (la moglie di Whitacre) e alcuni design sembrano infatti provenire più da un arco temporale che potremmo datare fra gli anni Sessanta e Ottanta, che dai Novanta in cui la storia effettivamente si colloca. L’intento dunque non è quello della verità, ma della verosimiglianza, perché l’operazione di mimesi ponga in primo piano l’empatia delle singole situazioni piuttosto che la precisione della ricostruzione.

D’altronde un altro possibile referente per il film è lo Steven Spielberg di Prova a prendermi, altra storie di truffe che descrivono i particolari umori di un arco storico della società americana: stavolta però l’inquietudine che pure pervadeva Frank Abbagnale viene estroflessa, non è riconducibile unicamente alla prospettiva filiale tanto cara a Spielberg. Certo la dinamica familiare è sempre importante, considerando che in fondo è proprio Ginger a spingere Mark a confessare la prima delle sue tante verità all’FBI e a proteggerlo dagli attacchi di chi è stato raggirato, ma la sensazione è maggiormente panica, poiché più evidente è il gioco al massacro nei confronti di una realtà tutta. Una realtà, per l’appunto, costruita sulla menzogna.

La narrazione si costringe pertanto in uno spazio che è totalmente e felicemente cinematografico: la vicenda di spionaggio industriale viene perciò vista da Mark come una parafrasi degli eventi raccontati nei romanzi di Michael Crichton (viene citato esplicitamente Sol Levante) o in film come Il socio di Sidney Pollack. Il personaggio si ispira a queste opere di finzione per perpetrare i suoi inganni, ma allo stesso tempo per costruire testardamente una versione alternativa della realtà, in cui si vede come l’eroe “dal cappello bianco”, opposto alle nefande dinamiche del sistema capitalista di cui pure si giova (arricchendosi sottobanco). Non a caso si definisce scherzosamente “agente 0014”, come ovvia moltiplicazione dell’iconico 007: una definizione che peraltro già palesa la sua consapevolezza di essere un formidabile doppiogiochista.

E quindi di questa realtà Mark risulta inizialmente il narratore attraverso un uso straniante della voce fuori campo, usata palesemente per piegare le svolte narrative alla sua logica contorta, quasi a contraddire ciò che le immagini raccontano, smontando e rimontando i fatti fino a farli coincidere con i suoi desideri e intenti. E’ lui l’artefice della rappresentazione, dispone in campo gli oggetti (sposta la sedia che copre la telecamera nascosta dall’FBI), sceglie le stanze dei meeting e cerca di estorcere la parola giusta per far chiudere l’indagine. Con levità Soderbergh compone così uno straordinario affresco sul senso delle cose in una realtà che rinnega se stessa e lentamente conduce Mark verso una discesa umana e professionale nella tragedia in cui il fiero manovratore si scoprirà attore in crisi.

La buona fede non basterà a salvarlo, ma comunque gli regalerà infine un insperato lieto fine, perché di fronte a una realtà che ha perso la sua verità anche il peggiore dei bugiardi finisce insperatamente per diventare un eroe.

The Informant!
(id.)
Regia: Steven Soderbergh
Sceneggiatura: Scott Z. Burns (dal libro di Kurt Eichenwald)
Origine: Usa, 2009
Durata: 108’

Steven Soderbergh e Matt Damon alla Mostra di Venezia
Sito italiano di The Informant!
Sito ufficiale americano di The Informant!
Sito ufficiale di Mark Whitacre

martedì 22 settembre 2009

Il mio vicino Totoro

Il mio vicino Totoro
 
Satsuki e la sorellina Mei si trasferiscono insieme al padre in una casa in campagna che ha la fama di essere infestata dai fantasmi. Le due vivono comunque il confronto con l’ignoto con la spensieratezza della loro giovane età e al contempo attendono il ritorno della madre, ricoverata in ospedale a causa della sua salute cagionevole. Un giorno Mei, inseguendo una misteriosa creatura dei boschi, raggiunge la tana di un enorme animale, cui dà il nome di Totoro. Sembra che solo lei però riesca a percepirne la presenza, ma gli eventi permetteranno anche a Satsuki di avere il suo contatto con queste magiche creature.

 
21 anni non hanno scalfito la statura di autentico classico dell’animazione che Il mio vicino Totoro si è nel frattempo guadagnato in patria e all’estero: riscoprirlo oggi, grazie alla distribuzione nelle sale voluta dalla Lucky Red, ci mette infatti di fronte a un’opera vivace e matura, che non patisce i confronti con l’evoluzione del linguaggio né tantomeno il paragone con i più recenti lavori di Hayao Miyazaki. D’altronde lo sappiamo bene: la grandezza di Miyazaki sta tutta nel suo porsi già come classico nel momento della creazione, al punto che ogni suo lavoro si distanzia dalla produzione contemporanea per parlare un linguaggio universale e trasversale alle epoche.
 
In questo senso non stupisce notare come il film si ponga esso stesso al crocevia di istanze tra loro differenti: l’ambientazione non tradisce elementi tali da potersi collocare in un tempo preciso, volge più al passato che al presente sebbene riverberi sicuramente una spinta verso il domani. La prospettiva non a caso è quella offerta da due bambini in un mondo che relega gli adulti in ruoli di contorno, figure lontane che si fanno attendere (alla fermata del bus, a casa per un ritorno dall’ospedale che viene procrastinato) e che per questo si stagliano come le figure deboli di un racconto dominato dai più piccoli.
 
Ancor più di Ponyo sulla scogliera, Miyazaki adotta qui una narrazione ad altezza di bambino, evidente soprattutto nel registro lessicale e nella fisicità delle due protagoniste, che esprimono i concetti con l’ausilio di gesti enfatici, urlando la loro gioia e dando vita a una sinfonia di suoni vitalistici che il film sente naturalmente come propri. L’aspetto più interessante, però, sta nella sua distanza da ogni possibile soluzione di continuità che marchi il limite fra il reale e il fantastico. Sebbene sia già presente l’idea della “soglia da attraversare” (come nel futuro La città incantata) per accedere alla tana del Totoro, il film non soggettivizza l’esperienza fantastica, ma la rende organica al ciclo della vita e della natura, in ossequio a quella componente animista che troverà il suo apogeo nel capolavoro Princess Mononoke (e viene spontaneo vedere Totoro come una variazione kawaii dello spirito dei boschi, “Colui che cammina nella notte”). 
 
Le creature fantastiche del film, quindi, non abitano alcun altrove, ma vivono normalmente attorno a noi e l’unico confine possibile che si possa tracciare è quello interno alla nostra capacità di percepirne la presenza. Come i Nerini del Buio che tendono a fuggire alla presenza della luce per abitare gli interstizi delle case, così i vari personaggi che il film mette in scena tendono a preservare una propria autonomia che alla bisogna può però diventare aperta condivisione di intenti: il registro si fa in questo caso ironico (l’attesa del Totoro con l’ombrello alla fermata dell’autobus), favolistico (la scena del volo, immancabile in qualsiasi film di Miyazaki) quando non direttamente avventuroso e velatamente drammatico (la corsa di Satsuki a bordo del Gattobus alla ricerca di Mei, o anche quella verso l’ospedale).
 
Il tutto viene a correlarsi con precise scelte di regia, che adottano un tono mediamente più ragionato del solito, con ritmi lenti che sembrano guardare più all’intimismo realista delle opere di un Yasujiro Ozu che alla magniloquenza di quel Kurosawa cui l’opera di Miyazaki è sempre stata accostata. D’altronde Il mio vicino Totoro nasce come pellicola secondaria rispetto al contemporaneo progetto di Una tomba per le lucciole, del quale sembra costituire uno speculare positivo: qui come lì due giovanissimi protagonisti, uniti da un legame di fraternità, devono infatti affrontare le incognite di una vita priva di figure di riferimento. Per questo Miyazaki sembra cercare un tono più raccolto, intimo, che razionalizzi in un andamento orizzontale gli andirivieni tra realtà e fantasia e dove le scene di puro lirismo fantastico esplodono improvvise, con una gioia incandescente, ma non assumono mai un ruolo da protagonista rispetto a una storia pure volutamente poco articolata.
 
L’insieme riesce perciò nel delicato equilibrio di produrre la fascinazione per i temi propri della poetica di Miyazaki ma con una prospettiva che appare, ancor più dopo aver visto gli sviluppi successivi, originale pur nel suo anticipare quello che verrà. E la buffa immagine del Totoro (divenuto non a caso il simbolo stesso dello Studio Ghibli) è una di quella che non si dimenticano, insieme al già citato Gattobus, che rielabora in modo molto personale lo Stregatto di Alice nel paese delle meraviglie.

 
Il mio vicino Totoro
(Tonari no Totoro)
Regia e sceneggiatura: Hayao Miyazaki
Origine: Giappone, 1988
Durata: 86’
 

lunedì 21 settembre 2009

Basta che funzioni

Basta che funzioni

Boris Yellnikov, sessant’anni durante i quali ha quasi vinto il Premio Nobel per la Fisica, vive solo a New York dopo il divorzio, dispensando cinismo e dure lezioni di vita alla varia umanità che lo circonda. Un giorno però nella sua tranquillità domestica irrompe Melody, ragazza di provincia ingenua e svampita che abbraccia la sua filosofia negativa tanto da conquistare il suo cuore e spingerlo a sposarla. Tutto sembra andare bene, ma l’arrivo dei genitori della ragazza, decisi a riportare la loro piccola nel tranquillo alveo della campagna, scombussola ulteriormente le cose.

Passano gli anni e i film di Woody Allen restano, apparentemente sempre fedeli a se stessi, ma in realtà percorsi da un nervosismo che sin dall’inizio li ha resi in costante ma continuo movimento. Acclamato ieri come re della commedia esistenziale e ancora qualche anno fa riscoperto addirittura come autore di thriller, per questo Basta che funzioni, sua quarantesima regia, Allen torna nei luoghi a lui più familiari, quelli di una New York che sembra deputata ancora una volta a territorio per una riflessione che parta da se stesso. Difficile infatti non vedere riprodotta in filigrana la figura dello stesso Allen nel protagonista afflitto da crisi d’ansia e nevrosi di vario tipo, tutte mitigate sotto la maschera del cinico che affronta la vita con un ghigno.

Le note di produzione ci ricordano che il progetto risale a ben dieci anni prima, tanto da far tornare ancora una volta a galla il sospetto di un’opera che guarda al passato, ma che in realtà si rivela ottima per un momento in cui l’autore tenta di tirare le prime fila di un discorso esistenziale semplice nella sua complessità, dove il fatalismo colorato di ironia beffarda si stempera in una dolcezza dell’animo che ammanta la storia di un’aura fiabesca. Il riferimento al Frank Capra più ottimista (uno dei molti presenti nel film) diventa quindi preciso per ricondurre l’energia che il protagonista muove verso un approdo che, pur non rinnegando la necessaria dose di fortuna, sia foriero di possibilità da afferrare perché tutto, realmente, funzioni.

Allen sfrutta dunque le direttrici oppositive del film in senso virtuoso, innanzitutto mettendo alla berlina le piccole grandi follie che connotano il mondo moderno: il fanatismo religioso, le nevrosi di coppia e le aspettative sociali dipingono un mondo fuori controllo che soltanto Boris sembra aver compreso nella sua assoluta follia. La sua consapevolezza, anzi, lo porta a discorrere direttamente con il pubblico, riverberando in questo modo i cliché metatestuali da sempre al centro del cinema alleniano (basti pensare a La rosa purpurea del Cairo o al coro greco de La dea dell’amore).

Allo stesso tempo, però, questa deriva metatestuale diventa anche la chiave di volta che il film compie per uscire dalle regole che lo stesso Boris sembra codificare e che si vedono inevitabilmente sovvertite dall’imprevedibilità degli eventi. Il protagonista diventa così a un tempo tramite e vittima di dinamiche che non riesce a prevedere nonostante il suo proclamarsi un Genio e che legittimano la contraddizione insita in un personaggio che, sebbene consapevole dei meccanismi della vita, pure li affronta con nevrosi e irrazionalità, rivelando una insospettabile fragilità di fondo. La stessa fragilità d'altronde connota tutti i personaggi della storia e permette ad Allen di imbastire così una danza di situazioni che rivoltano i presupposti iniziali. Il mondo pazzo diventa pertanto un universo sbilenco dove la non convenzionalità dei legami assume il ruolo di autentica risposta possibile alla follia di chi si ostina a ossequiare quelle regole codificate che inevitabilmente conducono all’infelicità.

Boris si ritrova perciò ancora una volta sposato, poi tradito e infine amato da una donna conosciuta nella più improbabile delle circostanze, mentre intorno a lui i protagonisti si liberano delle convenzioni e danno vita a legami di varia natura (bigamia, relazioni omosessuali eccetera) che vengono legittimati con spontaneità in quanto in grado di funzionare e che trovano anzi nell’arte la loro maggiore legittimazione: proprio l’arte nel film sembra peraltro riuscire a scardinare la seriosità delle definizioni assolute (rappresentate metaforicamente da quegli scacchi tanto cari allo stesso Boris) fornendo inattese deviazioni utili a favorire le metamorfosi dei personaggi.

La coralità degli eventi si sposa quindi al consueto fuoco di fila di battute che non risparmia nessuna nevrosi dell’epoca moderna e denota in fondo una volontà di superare lo steccato del pessimismo che altrove finiva per legittimare la mancanza di una condotta morale (Match Point) come unica possibile deriva per un mondo dominato dalla fortuna. Il tutto con leggiadria e senza malizie, trasmettendo anzi un divertimento sensibile, nonostante uno svolgimento articolato in pochi set, alcune sbavature di montaggio e un incedere basato soprattutto sulla forza della parola.

In tutto questo svetta sicuramente il consapevole lavoro svolto sugli attori: se Larry David è infatti già avvezzo al ruolo dell’anziano brontolone (interpretato nella sitcom Curb Your Enthusiasm), è straordinario il ribaltamento di ruolo compiuto su Evan Rachel Wood, celebre soprattutto per ruoli di ragazza tormentata e per la sua fama di bad-girl, che qui dà vita a un personaggio tenerissimo e solare, imprevedibile come gli sviluppi che la storia riserva al protagonista.

Basta che funzioni
(Whatever Works)
Regia e sceneggiatura: Woody Allen
Origine: Usa/Francia, 2009
Durata: 92’

Sito ufficiale americano
Intervista a regista e cast (in inglese)
Intervista a Woody Allen del 2006
Sito su Woody Allen

sabato 19 settembre 2009

Drag Me to Hell

Drag Me to Hell

Christine Brown lavora in banca e sogna di strappare il posto di vicedirettore al rampante collega Stu. L’occasione le arriva quando l’anziana Sylvia Ganush le chiede una proroga sul pagamento del mutuo: la capacità di prendere “decisioni difficili” senza mostrare pietà è infatti un requisito essenziale per poter ottenere il posto e così Christine rifiuta di aiutare la donna, nonostante le sue preghiere. Per punirla l’anziana le scaglia però addosso una maledizione che attira l’ira della Lamia, uno spirito che entro tre giorni trascinerà Christine letteralmente all’inferno. Sconvolta dalle continue apparizioni dello spettro che lasciano presagire la sua fine, Christine si rivolge perciò a un medium con cui tenta di scacciare lo spirito maligno.

Il ritorno di Sam Raimi all’horror ha generato un coro unanime di consensi da parte di critica e appassionati: l’atmosfera è un po’ quella di festeggiamento per il “figliol prodigo” tornato a casa dopo le deviazioni cinecomic della saga di Spider-Man. In realtà non ci vuole molto a comprendere come tale atteggiamento sia frutto più di un pregiudizio radicato che di reale rispondenza ai fatti: senza tirare in ballo i numerosi lungometraggi della filmografia di Raimi ascrivibili ai generi più disparati, è abbastanza ovvio che l’etichetta stessa di “regista horror” costituisca di per sé un tentativo abbastanza vile di ingabbiare un autore in un unico genere.

Se poi veniamo alla sostanza dei fatti, ci si può rendere conto altrettanto facilmente di come questo Drag Me to Hell sia ben lungi dal costituire un mero ritorno al passato: il “vecchio Raimi” è molto più presente nella sublime sequenza di resurrezione del Dottor Octopus nella sala operatoria di Spider-Man 2 che qui. Da questo punto di vista è più corretto considerare Drag Me to Hell non come un prodotto residuale del passato o come un tentativo di far retrocedere la filmografia, quanto invece come il frutto della volontà di aggiornare il rapporto fra il regista e la sua antica concezione dell’horror.

Che si sia di fronte al Raimi più giocoso e attento a sabotare la linearità narrativa con irruzioni nel grottesco è evidente da una serie di sequenze che mescolano a un tempo orrore e divertimento, riverberando quella spinta cartoonesca che aveva reso grande la trilogia di Evil Dead. La lunga sequenza dell’attacco in auto che Christine subisce da parte di una furente Sylvia Ganush è lì a testimoniarla: i tempi sono dilatati e si gioca con la dinamica dell’accumulo, in una serie di attacchi che ignorano volutamente la logica e rendono l’anziana gitana degna erede della malefica Henrietta de La casa 2. Ugualmente, però, il tono è meno sfrenato che in passato, come se Raimi si trattenesse e ignorasse volutamente le possibilità di aprire il suo testo a sfrenate deviazioni nel delirio.

L’alternanza di elementi e toni tra loro difformi e di momenti surreali si innesta infatti su un sottotesto particolarmente realistico: diventa in questo modo essenziale il ruolo di Christine, che sicuramente costituisce l’elemento di maggior tradimento rispetto ai canoni del passato. Non siamo infatti di fronte a un Ash o a un Peter Parker, ma a una ragazza che, nonostante le sue umili origini, ha abbracciato scientemente l’ideale capitalista basato sulla concorrenza spietata e sulla sopraffazione del prossimo per il proprio tornaconto. Per quanto possa non risultare evidente, Christine è il vero cattivo del film e l’accanimento che Raimi perpetua nei suoi confronti è ben diverso dai “superproblemi” che pure affliggono Bruce Campbell o Tobey Maguire nelle rispettive trilogie.

Probabilmente l’aspetto che nessuno ha mai veramente considerato nel cinema di Raimi, preso com’era a riverberarne esclusivamente la natura teorica di autentico manipolatore dell’artificio illusionistico, è la sua profonda empatia per i personaggi disadattati: un cinema dove l’eroe è un commesso del reparto ferramenta o uno sfortunato adolescente in perenne cerca del suo baricentro non può infatti ammettere una protagonista che, pur con le migliori intenzioni e molti problemi alle spalle, rifiuta di aiutare un’anziana donna per fare carriera. Ecco dunque che l’accanimento che il regista perpetua nei confronti della protagonista ribalta il segno della consueta odissea che Raimi da sempre riserva ai suoi personaggi: Christine patisce attacchi, viene lanciata in aria e ricoperta di vermi e umori corporei non per creare un’empatia con lo spettatore, ma per essere punita dei suoi errori e in questo deve compiere un percorso di sprofondamento del sé che trova il culmine nella sequenza del cimitero dove la vediamo, completamente immersa nel fango, abbracciare l’iconografia malconcia dell’Ash di Bruce Campbell. Christine, in pratica, è l’alternativa da sempre latente in un cinema che, nel fare luce su personaggi disadattati, cerca comunque di indirizzarli verso una finalità morale: un Peter Parker che, ricevuto il potere, ne rifiuta le responsabilità connesse e per questo deve essere punito.

Raimi tenta dunque un interessante esperimento di adeguamento della cifra più spettacolare del suo horror a una natura contenutistica che innesti lo stesso nell’America contemporanea, riverberando addirittura i mali della crisi economica. Non rinuncia per questo al gioco, ma lo conduce con più consapevolezza, e riesce pertanto a divertire lanciando anche un’intelligente riflessione sulla responsabilità. Probabilmente verrà capito soltanto in un secondo tempo, ma Drag Me to Hell sta a Evil Dead, come Spider-Man stava a Darkman.

Drag Me to Hell
(id.)
Regia: Sam Raimi
Sceneggiatura: Sam Raimi e Ivan Raimi
Origine: Usa, 2009
Durata: 99’

Sito italiano
Sito americano
Intervista a Sam Raimi
La scheda di Trailersland con i vari spot del film
Sam Raimi su Wikipedia
La trilogia di Evil Dead da Wikipedia inglese