Wolf Creek 2
Una coppia di turisti
tedeschi, Rutger e Katarina, visitano l'Outback, dove si imbattono
nel malvagio Mick Taylor: dopo aver visto il compagno fatto a pezzi,
Katarina fugge e viene soccorsa dall'inglese Paul, in viaggio
solitario lungo le strade australiane. Dopo la morte della ragazza,
Paul finisce così nel mirino di Taylor, che lo bracca fino allo
stremo, dando vita a un lungo inseguimento. Alla fine Paul cade nelle
mani del nemico, che però, solleticato dalla sua parlantina, gli
propone un bizzarro patto: lo lascerà andare se lui sarà in grado
di rispondere ad alcune domande sulla Storia e la cultura
australiana. Forte delle sue conoscenze, il ragazzo accetta la sfida,
che si rivelerà dolorosa e farà emergere tutta la follia del suo
carceriere...
Consapevole
dell'importanza che il primo Wolf Creek ha assurto nell'ambito
del nuovo cinema di genere australiano, per il tanto atteso sequel
Gregg McLean muove in una direzione che sembra dimostrare una
maggiore consapevolezza circa le implicazioni che la figura
dell'assassino Mick Taylor porta naturalmente con sé. Se già nel
capostipite Taylor risultava infatti una figura a metà strada fra la
concretezza della sua dimensione di “ocker” (ovvero lo stereotipo
dell'australiano rozzo e provinciale) e la trasfigurazione che di
quell'icona era stata fatta dalla rappresentazione cinematografica (i
ragazzi si rapportavano a lui citando Mr. Crocodile Dundee),
stavolta McLean alza direttamente la posta in gioco: il killer
diventa così una sorta di definitivo rappresentante di una purezza
dell'essere australiani, che si può contrapporre direttamente alla
madrepatria Inghilterra, in un confronto alla pari che pure non fa
venire meno le sue caratteristiche di autentica icona horror-pop.
L'incipit in cui Taylor
punisce due poliziotti che si erano presi gioco di lui, e i due
successivi movimenti che lo vedono rispettivamente alle prese con due
turisti tedeschi e un giovane inglese, descrivono infatti un
perimetro in cui l'uomo diventa il baluardo di un'intangibilità
dell'Outback australiano, contrapposto alla “civiltà” perpetuata
dalla colonizzazione che ha fondato l'Australia stessa: la tendenza
alla rarefazione visiva che avevamo visto nel primo capitolo, trova
dunque un suo fondamento concreto in una dimensione panica di cui
Taylor è l'autentico alfiere, in quanto rappresentante di una sorta
di male oscuro che la terra d'Oceania ha naturalmente fatto proprio -
e sappiamo bene come l'Outback sia diventato nel tempo la
raffigurazione inconscia del senso di alterità dell'australiano
medio rispetto alla propria terra, una sorta di autentica “zona
oscura” dell'immaginario.
Così, assurto ormai a
paradigma dell'oscurità rappresentata metaforicamente (e
praticamente) dall'Outback, Taylor può permettersi di “punire”
chi ha della sua terra una conoscenza limitatamente esotica (i
turisti) e – nell'ultima e più importante parte del film –
instaurare un confronto diretto con un giovane inglese, laureato in
Storia e che dunque conosce perfettamente i passaggi che hanno
fondato l'Australia: qui McLean è talmente esplicito da sfiorare il
didascalismo e le domande che Taylor rivolge a Paul fanno venire
fuori ciò che lo spettatore medio (quello che, come da primo
capitolo, si rapporta alla realtà attraverso un immaginario
puramente cinematografico) non conosce, ovvero che l'Australia, dopo
la sua scoperta da parte dell'Occidente, è stata la terra di
deportazione dei reietti dell'Impero Britannico. In quanto estensione
diretta della stessa terra colonizzata, Taylor “restituisce” il
favore facendo compiere al giovane inglese il percorso esattamente
contrario.
In questo modo, Paul
rivive sulla sua pelle l'esperienza dei primi coloni: incarcerato e
torturato, trattato dunque come un criminale e sottoposto all'unica
legge della violenza e del taglio delle dita per puro malumore del
suo carceriere, viene messo di fronte al crollo delle ragioni
intellettuali e al trionfo della bestialità. La sua intelligenza non
gli permette di trarsi d'impaccio, la sua conoscenza del passato
australiano non gli garantisce un lasciapassare, ma soltanto
un'ideale collocazione in un disegno che lo condurrà inevitabilmente
alla follia perché già scritto in una storia generata attraverso il
sangue e che perciò ha prodotto figure come quella di Taylor.
McLean compie questo
percorso attraverso una dinamica che, pur affidandosi
all'esplicitazione dei concetti storici attraverso i dialoghi, è per
il resto ancora una volta settata su un confronto di immaginari: così
come il primo Wolf Creek appariva infatti una trasfigurazione
autoctona dei codici espressivi di Non aprite quella porta,
allo stesso modo stavolta si chiamano in causa modelli come Non
aprite quella porta 2 per l'infernale e visionario viaggio nei
meandri del rifugio di Mick Taylor. Il set snocciola così luoghi
raccapriccianti, esseri umani in condizioni miserevoli e trappole
preistoriche senza soluzione di continuità, reinventando
continuamente lo spazio scenico. Come il suo personaggio, insomma,
anche McLean accetta la sfida del confronto diretto con gli standard
settati dalla cultura anglosassone, per “restituire” alla
rappresentazione cinematografica dominante la propria versione dei
fatti. E quando l'inseguimento con il camion crea la perfetta
sovrapposizione fra gli orrori dello spielberghiano Duel e le
dinamiche thriller di Roadgames,
capiamo che la sfida ha una sua precisa ragione d'essere, nell'ambito
di un cinema (quello australiano di genere) da sempre tarato sul
confronto diretto (che possiamo anche definire subalternità) con
modelli altri.
Ne viene fuori un film
che, accanto alle implicazioni potenti che chiama in causa, circa la
storia e la cultura d'Australia, è anche enormemente più violento
del precedessore, come liberato da quella sua aria un po' “assorta”,
e, cambiando anche il direttore della fotografia (Toby Oliver, al
posto del fido Will Gibson), affonda direttamente le mani nelle
carni. Lo fa in un modo che si situa però fra l'effetto shock e la
rappresentazione grottesca dei trucchi prostetici e della teatralità
del set: un mix di realismo documentario e eccessi pop molto
intrigante. L'Outback di Mick Taylor diventa così una
trasfigurazione che ne eleva a potenza il potenziale perturbante, ma
anche un set naturale che evoca naturalmente l'affabulazione e la
capacità di creare storie con cui la realtà può continuare a
instaurare una feconda dialettica.
Wolf Creek 2
(id.)
Regia e sceneggiatura:
Gregg McLean
Origine: Australia,
2013
Durata: 107'
Collegati:
Wolf Creek
Wolf Creek
1 commento:
ecco questa è un altra rece che aspettavo assai, grande dav, sono impaziente di vedere questa seconda avventura di Mick Taylor, il primo mi era piaciuto, alcune situazioni di quel film erano veramente angoscianti e da quanto ho capito sto giro McLean alza ancora di più la posta in gioco ;-)
Mooooolto bene, speriamo che da noi arrivi, in rete si vocifera il 20 febbraio però boh, potrebbe essere una bufala, il primo uscii al cinema ma venne distribuito malissimo in una manciata di sale infatti lo recuperai in dvd, spero che il sequel abbia una distribuizione migliore
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