"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 16 settembre 2013

Wolf Creek 2

Wolf Creek 2

Una coppia di turisti tedeschi, Rutger e Katarina, visitano l'Outback, dove si imbattono nel malvagio Mick Taylor: dopo aver visto il compagno fatto a pezzi, Katarina fugge e viene soccorsa dall'inglese Paul, in viaggio solitario lungo le strade australiane. Dopo la morte della ragazza, Paul finisce così nel mirino di Taylor, che lo bracca fino allo stremo, dando vita a un lungo inseguimento. Alla fine Paul cade nelle mani del nemico, che però, solleticato dalla sua parlantina, gli propone un bizzarro patto: lo lascerà andare se lui sarà in grado di rispondere ad alcune domande sulla Storia e la cultura australiana. Forte delle sue conoscenze, il ragazzo accetta la sfida, che si rivelerà dolorosa e farà emergere tutta la follia del suo carceriere...


Consapevole dell'importanza che il primo Wolf Creek ha assurto nell'ambito del nuovo cinema di genere australiano, per il tanto atteso sequel Gregg McLean muove in una direzione che sembra dimostrare una maggiore consapevolezza circa le implicazioni che la figura dell'assassino Mick Taylor porta naturalmente con sé. Se già nel capostipite Taylor risultava infatti una figura a metà strada fra la concretezza della sua dimensione di “ocker” (ovvero lo stereotipo dell'australiano rozzo e provinciale) e la trasfigurazione che di quell'icona era stata fatta dalla rappresentazione cinematografica (i ragazzi si rapportavano a lui citando Mr. Crocodile Dundee), stavolta McLean alza direttamente la posta in gioco: il killer diventa così una sorta di definitivo rappresentante di una purezza dell'essere australiani, che si può contrapporre direttamente alla madrepatria Inghilterra, in un confronto alla pari che pure non fa venire meno le sue caratteristiche di autentica icona horror-pop.

L'incipit in cui Taylor punisce due poliziotti che si erano presi gioco di lui, e i due successivi movimenti che lo vedono rispettivamente alle prese con due turisti tedeschi e un giovane inglese, descrivono infatti un perimetro in cui l'uomo diventa il baluardo di un'intangibilità dell'Outback australiano, contrapposto alla “civiltà” perpetuata dalla colonizzazione che ha fondato l'Australia stessa: la tendenza alla rarefazione visiva che avevamo visto nel primo capitolo, trova dunque un suo fondamento concreto in una dimensione panica di cui Taylor è l'autentico alfiere, in quanto rappresentante di una sorta di male oscuro che la terra d'Oceania ha naturalmente fatto proprio - e sappiamo bene come l'Outback sia diventato nel tempo la raffigurazione inconscia del senso di alterità dell'australiano medio rispetto alla propria terra, una sorta di autentica “zona oscura” dell'immaginario.

Così, assurto ormai a paradigma dell'oscurità rappresentata metaforicamente (e praticamente) dall'Outback, Taylor può permettersi di “punire” chi ha della sua terra una conoscenza limitatamente esotica (i turisti) e – nell'ultima e più importante parte del film – instaurare un confronto diretto con un giovane inglese, laureato in Storia e che dunque conosce perfettamente i passaggi che hanno fondato l'Australia: qui McLean è talmente esplicito da sfiorare il didascalismo e le domande che Taylor rivolge a Paul fanno venire fuori ciò che lo spettatore medio (quello che, come da primo capitolo, si rapporta alla realtà attraverso un immaginario puramente cinematografico) non conosce, ovvero che l'Australia, dopo la sua scoperta da parte dell'Occidente, è stata la terra di deportazione dei reietti dell'Impero Britannico. In quanto estensione diretta della stessa terra colonizzata, Taylor “restituisce” il favore facendo compiere al giovane inglese il percorso esattamente contrario.

In questo modo, Paul rivive sulla sua pelle l'esperienza dei primi coloni: incarcerato e torturato, trattato dunque come un criminale e sottoposto all'unica legge della violenza e del taglio delle dita per puro malumore del suo carceriere, viene messo di fronte al crollo delle ragioni intellettuali e al trionfo della bestialità. La sua intelligenza non gli permette di trarsi d'impaccio, la sua conoscenza del passato australiano non gli garantisce un lasciapassare, ma soltanto un'ideale collocazione in un disegno che lo condurrà inevitabilmente alla follia perché già scritto in una storia generata attraverso il sangue e che perciò ha prodotto figure come quella di Taylor.

McLean compie questo percorso attraverso una dinamica che, pur affidandosi all'esplicitazione dei concetti storici attraverso i dialoghi, è per il resto ancora una volta settata su un confronto di immaginari: così come il primo Wolf Creek appariva infatti una trasfigurazione autoctona dei codici espressivi di Non aprite quella porta, allo stesso modo stavolta si chiamano in causa modelli come Non aprite quella porta 2 per l'infernale e visionario viaggio nei meandri del rifugio di Mick Taylor. Il set snocciola così luoghi raccapriccianti, esseri umani in condizioni miserevoli e trappole preistoriche senza soluzione di continuità, reinventando continuamente lo spazio scenico. Come il suo personaggio, insomma, anche McLean accetta la sfida del confronto diretto con gli standard settati dalla cultura anglosassone, per “restituire” alla rappresentazione cinematografica dominante la propria versione dei fatti. E quando l'inseguimento con il camion crea la perfetta sovrapposizione fra gli orrori dello spielberghiano Duel e le dinamiche thriller di Roadgames, capiamo che la sfida ha una sua precisa ragione d'essere, nell'ambito di un cinema (quello australiano di genere) da sempre tarato sul confronto diretto (che possiamo anche definire subalternità) con modelli altri.

Ne viene fuori un film che, accanto alle implicazioni potenti che chiama in causa, circa la storia e la cultura d'Australia, è anche enormemente più violento del precedessore, come liberato da quella sua aria un po' “assorta”, e, cambiando anche il direttore della fotografia (Toby Oliver, al posto del fido Will Gibson), affonda direttamente le mani nelle carni. Lo fa in un modo che si situa però fra l'effetto shock e la rappresentazione grottesca dei trucchi prostetici e della teatralità del set: un mix di realismo documentario e eccessi pop molto intrigante. L'Outback di Mick Taylor diventa così una trasfigurazione che ne eleva a potenza il potenziale perturbante, ma anche un set naturale che evoca naturalmente l'affabulazione e la capacità di creare storie con cui la realtà può continuare a instaurare una feconda dialettica.


Wolf Creek 2
(id.)
Regia e sceneggiatura: Gregg McLean
Origine: Australia, 2013
Durata: 107'


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1 commento:

myers82 ha detto...

ecco questa è un altra rece che aspettavo assai, grande dav, sono impaziente di vedere questa seconda avventura di Mick Taylor, il primo mi era piaciuto, alcune situazioni di quel film erano veramente angoscianti e da quanto ho capito sto giro McLean alza ancora di più la posta in gioco ;-)
Mooooolto bene, speriamo che da noi arrivi, in rete si vocifera il 20 febbraio però boh, potrebbe essere una bufala, il primo uscii al cinema ma venne distribuito malissimo in una manciata di sale infatti lo recuperai in dvd, spero che il sequel abbia una distribuizione migliore