"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

giovedì 19 settembre 2013

Venezia 70: i film (3/4)

Venezia 70: i film (3/4)

The Zero Theorem, di Terry Gilliam (Concorso)

Terry Gilliam ricorda un po' Brian De Palma: entrambi rivendicano con forza l'attitudine a parlare della realtà, anche se poi le forme del loro cinema trasfigurano la stessa fino a renderla irriconoscibile o, comunque, riverberano sempre la finzione del set. In Gilliam il gioco si fa ancora più estremo, perché la sua visione “politica” è filtrata da uno sguardo che tende naturalmente al fiabesco e al surreale, e in questo caso deve anche barcamenarsi con un budget ridotto. La sfida è comunque vincente: nel tornare alla fantascienza distopica in stile Brazil, l'autore convince quando lascia correre a briglia sciolta il suo immaginario e si concentra sulle ossessioni e le speranze infrante dei suoi protagonisti. La storia vuole essere una metafora della tendenza a “chiudersi” in universi virtuali, attraverso la figura di Qohen Leth (il sempre grande Christoph Waltz, con inedito look calvo), internauta che cerca nella rete la ragione dell'esistenza. La trova forse quando una ragazza, Bainsley, sembra interessarsi a lui: ma è solo una squillo inviata da chi gestisce le redini del sistema. O forse c'è la possibilità che l'amore nasca davvero? La riflessione sulla solitudine del virtuale lascia un po' il tempo che trova, ma, fra pigli visionari e paesaggi virtuali, si snoda una bella favola con sottofondo malinconico e un finale lasciato all'interpretazione dello spettatore (e, a sentire lo stesso Gilliam in conferenza stampa, le cose possono essere molto più distanti da quanto le immagini non facciano credere). Notevole il ruolo di Mélanie Thierry, che mancava da parecchio in una produzione internazionale (era ne La leggenda del pianista sull'oceano di Tornatore).



Child of God, di James Franco (Concorso)

James Franco, invece, è una di quelle figure che gioca a non farsi ingabbiare: un po' divo blockbuster (Spider-Man, Il grande e potente Oz), un po' icona indipendente che flirta con l'idea della pansessualità (presa simpaticamente in giro in Facciamola finita), in questo caso prende di petto la sfida della trasposizione di un testo di Cormac MacCarthy, raccontando l'epopea di Lester Ballard: autentico outsider di una comunità dell'entroterra americano, Ballard scorrazza per i boschi dando sfogo alla sua follia e giocando con le percezioni dello spettatore, che a tratti prova tenerezza per la sua ingenua e sincera pulsione primitiva, in altri momenti si ritrova invece messo di fronte all'orrore della sua totale incapacità di distinguere il bene dal male, che lo porta ad abiezioni che arrivano alla necrofilia. Tutto questo finché un gruppo di cittadini (fra i quali riconosciamo lo stesso Franco) non tenta di punirlo. L'idea che Franco si ponga fra i carnefici sembra donare alla vicenda un punto di vista ben definito, che però lo sguardo documentaristico eppure empatico contraddice, creando un interessante gioco di paradossi. A farla da padrone è comunque la performance straordinaria di Scott Haze, che dona tutto se stesso nella raffigurazione di questa particolare icona americana, che ricorda un po' il Mad Dog Morgan del compianto Dennis Hopper. Una figura che è anche l'ennesimo individuo “bigger than life” eppure straordinariamente fragile del variegato mosaico che sempre più definisce l'universo registico di James Franco (in passato c'era stato Sal Mineo in Sal e fra i progetti annunciati c'è anche Bukowski). Giusto per ribadire come al divo/regista interessino le zone di confine e la sovrapposizione degli opposti.



White Shadow, di Noaz Deshe (Settimana della Critica)

Il vincitore del Leone del Futuro (ovvero il premio che si fa carico di investire su un nome che lascia intravedere ottime capacità) è andato meritatamente a questo bellissimo film di Noaz Deshe, ambientato in Tanzania, dove si racconta l'odissea di Alias, un ragazzo albino affidato allo zio dopo che il padre è stato ucciso da alcuni adepti di un culto satanico (la carne di albino, infatti, viene usata dai sacerdoti per officiare i loro mostruosi riti). Costretto a trovare la sua strada, Alias deve fare i conti con una realtà abituata a considerarlo un diverso e che per questo lo respinge, nonostante i suoi sforzi di sopravvivere: accanto alla cifra eminentemente sociologica di un'opera che getta luce sul difficile destino della minoranza albina nel paese africano, ciò che colpisce è lo stile usato da Deshe per raccontare questa storia. Il suo sguardo dipinge letteralmente una realtà espressionista attraverso una macchina da presa mobile e liberissima, uso espressivo dei colori e dei fuori fuoco, creando un arazzo visivo di grande potenza espressiva, che arriva a toni quasi horror nelle scene notturne che vedono il povero protagonista braccato dai nemici e dagli adepti del mostruoso culto. Il quadro visivo estrinseca così tutto il senso di alienazione e di precarietà su cui viaggia l'esistenza del ragazzo, affine eppure distante dalla realtà che attraversa e con cui egli si relaziona attraverso il doppio rapporto della vicinanza e della lontananza da ogni luogo. Così come bianco e allo stesso tempo nero è il personaggio, altrettanto si può dire di una messinscena che sovrappone strati fra loro diversi, donandoci un'opera poetica eppure allo stesso tempo in grado di annichilire per la sua crudeltà. Uno dei migliori titoli del festival e la dimostrazione che si può fare un cinema rigoroso nelle tematiche e liberissimo nello stile.

Nessun commento: