Venezia 70: i film (3/4)
The Zero Theorem,
di Terry Gilliam (Concorso)
Terry Gilliam ricorda un
po' Brian De Palma: entrambi rivendicano con forza l'attitudine a
parlare della realtà, anche se poi le forme del loro cinema
trasfigurano la stessa fino a renderla irriconoscibile o, comunque,
riverberano sempre la finzione del set. In Gilliam il gioco si fa
ancora più estremo, perché la sua visione “politica” è
filtrata da uno sguardo che tende naturalmente al fiabesco e al
surreale, e in questo caso deve anche barcamenarsi con un budget
ridotto. La sfida è comunque vincente: nel tornare alla fantascienza
distopica in stile Brazil, l'autore convince quando lascia
correre a briglia sciolta il suo immaginario e si concentra sulle
ossessioni e le speranze infrante dei suoi protagonisti. La storia
vuole essere una metafora della tendenza a “chiudersi” in
universi virtuali, attraverso la figura di Qohen Leth (il sempre
grande Christoph Waltz, con inedito look calvo), internauta che cerca nella rete la ragione
dell'esistenza. La trova forse quando una ragazza, Bainsley, sembra
interessarsi a lui: ma è solo una squillo inviata da chi gestisce le
redini del sistema. O forse c'è la possibilità che l'amore nasca
davvero? La riflessione sulla solitudine del virtuale lascia un po'
il tempo che trova, ma, fra pigli visionari e paesaggi virtuali, si
snoda una bella favola con sottofondo malinconico e un finale
lasciato all'interpretazione dello spettatore (e, a sentire lo stesso
Gilliam in conferenza stampa, le cose possono essere molto più
distanti da quanto le immagini non facciano credere). Notevole il
ruolo di Mélanie Thierry, che mancava da parecchio in una produzione
internazionale (era ne La leggenda del pianista sull'oceano di
Tornatore).
Child of God,
di James Franco (Concorso)
James Franco, invece, è
una di quelle figure che gioca a non farsi ingabbiare: un po' divo
blockbuster (Spider-Man, Il grande e potente Oz), un
po' icona indipendente che flirta con l'idea della pansessualità
(presa simpaticamente in giro in Facciamola finita), in
questo caso prende di petto la sfida della trasposizione di un testo
di Cormac MacCarthy, raccontando l'epopea di Lester Ballard:
autentico outsider di una comunità dell'entroterra americano,
Ballard scorrazza per i boschi dando sfogo alla sua follia e
giocando con le percezioni dello spettatore, che a tratti prova
tenerezza per la sua ingenua e sincera pulsione primitiva, in altri
momenti si ritrova invece messo di fronte all'orrore della sua totale
incapacità di distinguere il bene dal male, che lo porta ad
abiezioni che arrivano alla necrofilia. Tutto questo finché un
gruppo di cittadini (fra i quali riconosciamo lo stesso Franco) non
tenta di punirlo. L'idea che Franco si ponga fra i carnefici sembra
donare alla vicenda un punto di vista ben definito, che però lo
sguardo documentaristico eppure empatico contraddice, creando un
interessante gioco di paradossi. A farla da padrone è comunque la
performance straordinaria di Scott Haze, che dona tutto se stesso
nella raffigurazione di questa particolare icona americana, che
ricorda un po' il Mad Dog Morgan del compianto Dennis Hopper. Una
figura che è anche l'ennesimo individuo “bigger than life”
eppure straordinariamente fragile del variegato mosaico che sempre
più definisce l'universo registico di James Franco (in passato c'era
stato Sal Mineo in Sal e fra i progetti annunciati c'è anche
Bukowski). Giusto per ribadire come al divo/regista interessino le
zone di confine e la sovrapposizione degli opposti.
White Shadow,
di Noaz Deshe (Settimana della Critica)
Il vincitore del Leone
del Futuro (ovvero il premio che si fa carico di investire su un nome
che lascia intravedere ottime capacità) è andato meritatamente a
questo bellissimo film di Noaz Deshe, ambientato in Tanzania, dove si
racconta l'odissea di Alias, un ragazzo albino affidato allo zio dopo
che il padre è stato ucciso da alcuni adepti di un culto satanico
(la carne di albino, infatti, viene usata dai sacerdoti per officiare
i loro mostruosi riti). Costretto a trovare la sua strada, Alias deve
fare i conti con una realtà abituata a considerarlo un diverso e che
per questo lo respinge, nonostante i suoi sforzi di sopravvivere:
accanto alla cifra eminentemente sociologica di un'opera che getta
luce sul difficile destino della minoranza albina nel paese africano,
ciò che colpisce è lo stile usato da Deshe per raccontare questa
storia. Il suo sguardo dipinge letteralmente una realtà
espressionista attraverso una macchina da presa mobile e liberissima,
uso espressivo dei colori e dei fuori fuoco, creando un arazzo visivo
di grande potenza espressiva, che arriva a toni quasi horror nelle
scene notturne che vedono il povero protagonista braccato dai nemici
e dagli adepti del mostruoso culto. Il quadro visivo estrinseca così
tutto il senso di alienazione e di precarietà su cui viaggia
l'esistenza del ragazzo, affine eppure distante dalla realtà che
attraversa e con cui egli si relaziona attraverso il doppio rapporto
della vicinanza e della lontananza da ogni luogo. Così come bianco e
allo stesso tempo nero è il personaggio, altrettanto si può dire di
una messinscena che sovrappone strati fra loro diversi, donandoci
un'opera poetica eppure allo stesso tempo in grado di annichilire per
la sua crudeltà. Uno dei migliori titoli del festival e la
dimostrazione che si può fare un cinema rigoroso nelle tematiche e
liberissimo nello stile.
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