"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

giovedì 12 settembre 2013

Venezia 70: I film (2/4)

Venezia 70: I film (2/4)

Night Moves, di Kelly Reichardt (Concorso)

Uno dei film che più hanno diviso il pubblico festivaliero: due giovani ecoterroristi, Dena e Josh, decidono di far saltare in aria una diga a scopo dimostrativo. Nell'attentato, però, muore un giovane che si trovava nei dintorni, ignaro di quanto stava per accadere. Dena e Josh devono quindi fare i conti con le proprie coscienze, in una dinamica molto tesa fra la fermezza imposta dalla mente e i valori dettati dal cuore, mentre nuovi sentimenti e inedite paure vengono a galla. Una sorta di confronto diretto fra la dimensione ideale e la concretezza del vero, che Kelly Reichardt scandisce attraverso un tono quasi sempre ipnotico e un'estetica dapprima più definita nei luoghi attraversati dai ragazzi (la strada, i boschi, il lago), e poi trasfigurata in un'ottica sempre più oscura, a metà strada fra un noir e un vero e proprio horror gotico. Alla fine è proprio il quadro sempre meno definito a tarare i ritmi e i toni, mentre i personaggi restano sfumati e volutamente ambigui, con un utilizzo molto interessante dei corpi attoriali. Dena è l'ex bambina prodigio Dakota Fanning, mentre Josh è un sorprendente Jesse Eisenberg, introverso, inquietante e abbastanza lontano dal consueto stereotipo del “nerd” logorroico: entrambi fragili e in equilibrio su sentimenti contrapposti, finiscono con la loro fisicità per aggiungere sostanza a un film narrativamente tutto in levare. Il titolo si riferisce alla barca che i ragazzi imbottiscono d'esplosivo per compiere l'attentato, ma può anche rimandare a un classico brano musicale di Bob Seger che racconta proprio l'incontro di due adolescenti che “si usano” a vicenda. Ne emerge un ritratto che, pur non giudicando direttamente le azioni dei protagonisti, suscita naturalmente una forte amarezza e un senso di perdita dei punti di riferimento.



Joe, di David Gordon Green (Concorso)

Sia Kelly Reichardt che David Gordon Green sono due fra i nomi più interessanti del panorama indipendente americano contemporaneo ed è interessante notare come, pur raccontando storie diverse, affrontino in senso lato l'esperienza del crescere in giovani protagonisti alle prese con le difficoltà del mondo. Nel caso di Joe, il giovane Gary vive con un padre ubriacone e cerca di farsi carico della famiglia, lavorando per Joe, un individuo burbero e solitario. Ben presto fra i due nasce una solidarietà che si rivela reciprocamente costruttiva: Gary trova infatti nell'uomo un riferimento che lo aiuti a far fronte alle amarezze e alle difficoltà della vita, mentre Joe avverte nel rapporto con il ragazzo quel qualcosa che sembrava mancargli e che potrebbe veicolare in un senso nuovo la rabbia che serpeggia lungo tutte le sue giornate. Un esempio di cinema americano molto classico nell'impostazione, con un rapporto transgenerazionale che fa giustamente venire in mente Gran Torino: laddove Eastwood cerca comunque di raccontare la costruzione di un possibile spazio comune in cui i personaggi possano coesistere, al contrario Joe sembra invece testimoniare la difficoltà delle figure di agire nello stesso perimetro. Il tono è infatti ondivago, e resta sempre a metà fra la rabbia rabbia repressa dall'adulto e la voglia di affrancarsi dalla negatività del ragazzo, e più dei gesti concreti (che spesso si risolvono in colpi, ferite e rotture – persino la costruttiva azione di lavoro consiste nell'avvelenare degli alberi) spicca una solidarietà silenziosa. Alla fine, pur nella progressione molto lineare, si aprono margini di interpretazione e i ruoli così definiti appaiono un po' più sfumati. Non memorabile, ma interessante, con un Nicolas Cage abbastanza inedito e che testimonia la sua voglia di affrontare registri sempre diversi (forse un po' troppo giovane per il ruolo, però).



Las ninas Quispe, di Sebastian Sepulveda (Settimana della Critica)

Il Cile continua a fare i conti con il suo tragico passato, complice anche l'influenza del produttore Pablo Larrain. Il film di Sebastian Sepulveda, però, opta per una prospettiva inedita, raccontando un fatto ispirato a eventi reali: è il 1974 e nelle montagne del Cile vivono le sorelle Quispe, che conducono una vita semplice, coltivando la terra e allevando pecore. Lentamente, però, vengono raggiunte dalle voci del cambiamento che si è instaurato nel paese e di un regime che presto arriverà anche da loro a esigere il suo tributo di controllo totale. Questo avviene attraverso vari “si dice”, ma soprattutto con la consapevolezza che le (poche) persone di quei monti stanno lentamente sparendo, allontanandosi come per fuggire da un male incombente o forse perché stanno repentinamente soccombendo allo stesso. Il dramma del golpe raccontato attraverso un perenne fuoricampo che però influisce sugli angoli più dimenticati del paese è al centro di un racconto con ritmi quasi trasognati, dove la catastrofe si insinua in maniera lenta ma inesorabile sottopelle e spinge dei personaggi che hanno fatto del rapporto con la loro terra l'elemento qualificante delle proprie vite, a compiere scelte difficili e dolorose, fino a un finale decisamente non consolatorio. Un film che, insomma, trasfigura il modo con cui il Cile ha introiettato il dolore, il senso dello smarrimento e della sparizione attraverso il paradosso di un racconto che fa luce su una vicenda dimenticata, ma è tutto basato su elementi quasi impalpabili. L'orrore non si manifesta in maniera improvvisa, ma è quello della normalità e della decadenza insita nella lentezza del quotidiano. Un piccolo e prezioso gioiello.

1 commento:

myers82 ha detto...

Mi hai messo ancora più voglia di vedere "Joe", speriamo che in italia arrivi presto :-)