Le macchine che
distrussero Parigi
Arthur Waldo è in
viaggio con il fratello George, quando l'auto finisce fuori strada.
George muore, mentre Arthur resta solo e disorientato: alle spalle ha
un trauma che gli impedisce di guidare e ora la scomparsa del
fratello, contribuisce ad acuire i suoi sensi di colpa. L'uomo viene
comunque “adottato”, suo malgrado, dalla gente di Parigi, una
cittadina situata nei pressi del luogo dove è avvenuto l'incidente.
Non che il disastro sia stato casuale: la popolazione della città
vive infatti a spese dei malcapitati in transito nelle vicinanze, che
vengono fatti deragliare apposta per riciclare i materiali delle loro
auto. Così, Arthur cerca, non senza difficoltà, di integrarsi nella
vita cittadina, mentre all'orizzonte si profila lo scontro fra le
autorità e le bande di giovani che scorrazzano a bordo di auto
modificate.
Da noi si vide molti anni
fa in tv, salvo poi essere recuperato fortunatamente in DVD più di
recente da Ripley's Home Video (con il titolo originale The Cars
That Ate Paris): è il primo lungometraggio cinematografico di
Peter Weir e può apparire ad oggi un oggetto strano e difficilmente
classificabile, ma si tratta – a tutti gli effetti –
dell'autentico punto di contatto fra la produzione dell'autore (non
ancora “storicizzato” come tale) e il sottobosco
dell'Ozploitation, che da qui riprenderà l'iconografia cult delle
auto mostruose: lo scambio fra Weir e le produzioni di genere è
peraltro suggellato anche dalla presenza, nel cast, di Bruce Spence,
corpo iconico della commedia demenziale Stork, uscita tre anni
prima.
Non che si debba temere
una deviazione del regista nei territori del cinema più “facile”,
beninteso, perché la vicenda è, neanche a dirlo, totalmente
addentro alle sue ossessioni, con un protagonista in bilico fra due
realtà, il cui viaggio nell'anomala cittadina di Parigi rappresenta
un vero e proprio percorso di formazione, testimoniato dal
superamento finale del trauma che gli impedisce di salire al volante.
Il tono, in effetti, è satirico, con tanto di spiritoso (e un po'
cinefilo) ammiccamento agli stilemi del western, resi ancora più
forti da un uso eccellente del formato Scope, che rende la
scorribanda finale delle auto mostruose in città un'autentica resa
dei conti in stile sparatoria dell'O.K. Corral. Weir, insomma,
riprende il tono grottesco di Homesdale,
e se a tratti emerge la fattura del divertissement
(il progetto originale prevedeva effettivamente una commedia) sottotraccia corrono umori molto seri, che descrivono ancora una
volta la ricerca di un'identità in un luogo “chiuso”, in
apparenza autosufficiente e opposto al mondo “di fuori”: un posto
destinato, pertanto, a implodere.
La figura retorica
dell'automobile (autentico oggetto-feticcio nella cultura
australiana) diventa così la cartina di tornasole di una realtà che
manca di un'originalità propria e cerca di esprimere i propri moti
personalistici attraverso la modifica sfrenata dei veicoli. Accanto
allo scontro fra autorità (che premono per mantenere lo status quo)
e giovani ribelli (quasi una sorta di traccia per i futuri punk di
Mad Max), emerge infatti un senso di spaesamento che rende
Parigi, sin dal nome “francese”, una sorta di distorto tentativo
di emulare i modelli forniti dall'Occidente: le iconografie di cui è
ammantato il film, pertanto, si rifanno sempre all'Europa o
all'America, basti vedere i poster sui muri o i ritratti della Regina
Elisabetta, che stanno lì a riverberare nettamente la natura di ex
colonia dell'Australia.
La lucidità “politica”
del ritratto fornito da Weir troverà un corrispettivo altrettanto
efficace (e ancora più corrosivo) soltanto nella sfrenata
splatterfest di Bad Taste con cui Peter Jackson, oltre
dieci anni dopo, ironizzerà sulla Nuova Zelanda: lo spaesamento per
la mancanza di un'identità propria, mantiene gli uomini di Parigi in
una sorta di stato intermedio fra la modernità e la
pre-civilizzazione, con la pratica del baratto che sostituisce la
compravendita e un senso di perenne sopraffazione dei più forti sui
più deboli, che sfocia negli incidenti con cui ci si procacciano i
materiali per la sopravvivenza.
Weir lavora visivamente
sul contrasto tra iconografie “forti” e ben definite (le auto e i
temi musicali western alla Sergio Leone) e un senso di ricercata
artificiosità dell'insieme, evidenziato sin dal prologo in cui, il
viaggio di una coppia, è ritratto come se fosse lo spot di
un'ipotetica campagna pubblicitaria sui luoghi dell'entroterra
australiano: ancora una volta, quindi, il regista ragiona nel merito
dei meccanismi della rappresentazione e l'irruzione finale in città
delle auto pesantemente modificate e “mostrificate” diventa in
questo modo tanto la celebrazione di una finzione scenica che
serpeggia lungo tutto la vicenda, quanto la catartica distruzione di
un modello attraverso la violazione della propria concretezza, con
case sfasciate e corpi infilzati sulle punte metalliche che coprono
le carrozzerie.
Sebbene il tono sia
comunque tarato sul senso di smarrimento del protagonista –
classico outsider alla Weir in cerca del proprio sé – la
sensazione è quella di uno dei film più giocosi del regista
australiano, tanto che la “rinascita” finale dello stesso Arthur
ha quasi il sapore dello sberleffo, più che della ritrovata
stabilità emotiva: l'uomo infatti supera la sua paura al volante
lanciandosi con l'auto contro uno degli autisti folli. Forse il punto
non è tanto la redenzione, quanto il raggiungimento del modello
portato avanti da Parigi, e d'ora in poi incarnato dal solo Arthur,
diventato pertanto un australiano modello, almeno secondo la visione
satirica portata avanti dal film!
Le macchine che
distrussero Parigi
(The Cars That Ate
Paris)
Regia: Peter Weir
Sceneggiatura: Peter
Weir (storia di Peter Weir, Keith Gow e Piers Davies)
Origine: Australia,
1974
Durata: 84'
Collegato:
Michael e Homesdale: gli esordi di Peter Weir
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