Living
3 storie che procedono
in parallelo: Grishka e Anton sono una giovane coppia di innamorati,
molto legati nonostante le avversità (lui è sieropositivo). Dopo
aver convissuto insieme a lungo decidono di sposarsi, ma subito dopo
aver celebrato il matrimonio lui viene aggredito da una banda di
teppisti e pestato fino a morirne. Grishka è disperata, e il suo
dolore è tale che un giorno Anton torna da lei.
Artem vive con la
madre e il patrigno dopo la separazione dei genitori: il piccolo,
però, non riesce ad accettare questa situazione e, incompreso dal
resto della famiglia, aspetta il ritorno del padre, che un giorno
torna per lui. I due fuggono insieme, ma la madre e il patrigno li
inseguono.
Kapustina non riesce a
darsi pace dopo la morte delle sue due bambine: tale e tanta è
l'ossessione per la perdita, che la donna si convince che le piccole
siano state sepolte vive. Così le riesuma e riprende a vivere con
loro, come se fossero vive.
Arriva dalla Russia
questo Living, opera seconda del regista e drammaturgo Vasily
Sigarev: il richiamo alla vita del titolo è un gesto di volontà,
denota l'attaccamento all'esistenza, anche laddove questa sembra al
contrario premere verso ben altre direzioni. Lo dimostrano le tre
storie che si intrecciano nel flusso del racconto e che chiamano in
causa legami spezzati e personaggi incapaci di far fronte alle
rispettive situazioni. Quasi dei vicoli ciechi in cui gli sventurati
protagonisti sono bloccati tanto dall'imprevedibile e spietata ironia
della sorte, tanto dalla loro voglia di non andare avanti, di non
lasciarsi alle spalle ciò che è stato.
Tutto questo già si
evince dalla superficie, dal semplice racconto delle vicende,
lampante nel modo in cui enuncia la disperata pesantezza del vivere,
e la coesistenza di resistenza e dolore: ma a Vasily Sigarev non
interessa l'esistenzialismo spicciolo, magari facilmente ammantato da
documentarismo. Al contrario, il regista e sceneggiatore russo
predilige un approccio in soggettiva, che rende la struttura stessa
del film permeabile agli umori che serpeggiano sottotraccia. Ne nasce
uno stile che sta a metà fra la descrizione ineluttabile
dell'infelice esistenza dei personaggi e un'empatia capace di rendere
oggettivi i desideri degli stessi. Il racconto anche brutale delle
vicende si fa infatti carico delle speranze dei singoli attraverso
una qualità onirica, in cui la vita e la morte finiscono per
coesistere in uno stato di assoluta normalità: così Anton ritorna
da Grishka e i due possono tornare a dividere lo stesso letto,
Kapustina scopre che le figlie sono davvero vive e le
riaccoglie in casa, mentre Artem riesce a fuggire con il padre,
tornato finalmente a prenderlo.
Il gioco degli spazi si
situa dunque fra la vastità quasi asettica dei paesaggi imbiancati
dalla neve, delle stanze d'ospedale o delle carrozze dei treni, e
l'intimità domestica dei luoghi che si sentono propri, in cui è
possibile tornare ad assaporare il gusto della condivisione e della
quotidianità: è come se la vastità del territorio russo già
contempli di per sé l'idea del perdersi, dell'aprirsi come metafora
dell'annullarsi (Anton muore perché accetta di seguire i teppisti
che lo attirano con una richiesta d'aiuto) e dove, per contro,
bisogna sempre richiudersi in se stessi. Le case sono dunque gli
unici mondi possibili, e laddove si configurano al contrario come
delle prigioni (come nel caso di Artem, che mal sopporta la
convivenza con la madre e il patrigno), il rifugio è rappresentato
dal letto, in cui rannicchiarsi come a voler descrivere un perimetro
totalmente proprio, in cui occupare il minor spazio possibile per
affrancarsi da quella vita che è dettata dal mondo di fuori. La
messinscena non può quindi fare a meno del realismo, di luoghi
concreti in cui adagiare i corpi, ma si stempera in uno stato
perennemente assorto, che non concede mai nulla a eventuali sussulti
visionari o fiabeschi. Si lavora sulle sfumature, sulle musiche di
Pavel Dodonov che contribuiscono a creare l'atmosfera straniante e
malinconica, dove il dolore è l'architrave di un desiderio più
dolce e crea perciò quello stordimento da zona intermedia in cui gli
opposti si annullano e si riequilibrano.
Quasi un racconto di
morti viventi e vivi morenti nello stesso spazio, insomma,
abbracciati in una impossibile sopravvivenza reciproca, dove non vige
più alcuna dicotomia, ma soltanto la forza dei legami, capaci di
farsi unico motore possibile del mondo. In virtù di questo complesso
intreccio di forze, il film finisce per riverberare una sottile
qualità horror, evidente da alcune scelte iconografiche: il
sembiante sinistro di Anton, fasciato ed emaciato dopo il pestaggio,
le silenziose bambine-bambole di Kapustina, le paure infantili di
Artem.
E se il finale pure
scioglie molti dubbi, ripristinando in più di un caso la vittoria
della realtà e del mondo di fuori, il film non abbandona mai del
tutto gli umori di questa realtà “a metà” fra vita e morte: è
un segno di rispetto del regista per quelli che non considera solo
dei folli, ma degli individui colpevoli soltanto di restare attaccati
alla poca felicità offerta dalle loro vite.
Presentato al Festival
del Cinema Europeo di Lecce 2013.
Living
(Zhit)
Regia e sceneggiatura:
Vasily Sigarev
Origine: Russia, 2012
Durata: 119'
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