"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

sabato 20 aprile 2013

La collina dei papaveri

La collina dei papaveri

1963. Umi è una studentessa che ogni giorno issa sul pennone davanti alla casa in cui vive delle bandiere nautiche: un segno che le permette di tenere vivo il ricordo del padre, scomparso in mare durante la guerra di Corea. A notare le insegne è invece Shun, figlio di un marinaio, che non può fare a meno di notare il rituale mentre passa con il traghetto davanti alla “collina dei papaveri” in cui vive Umi. L'amicizia fra i due ragazzi ha modo di consolidarsi durante la comune partecipazione alle iniziative studentesche volte a impedire l'abbattimento del Quartier Latin, un antico edificio sede dei club scolastici. Il rapporto fra i due ha così modo di maturare sempre più verso un sentimento più profondo: ma un giorno Shun scopre che Umi potrebbe essere sua sorella. Anche lui infatti è stato adottato e una foto sembra ricondurre la figura del padre di entrambi alla stessa persona...


Il ricambio generazionale tra le fila dello Studio Ghibli ha oggi un esponente di spicco nella figura di Goro Miyazaki, figlio del celeberrimo Hayao, che, dopo l'esordio con il sottovalutato I racconti di Terramare, ha finalmente modo di dimostrare la sua forza autoriale grazie a questo La collina dei papaveri. In effetti, il problema della confusione/sovrapposizione con la figura del padre è evidente in entrambe le pellicole che Goro ha diretto, dove non a caso il problema si inquadra attraverso le figure di protagonisti umbratili e alla perenne ricerca del proprio ruolo e della propria identità. Il regista, pertanto, innesta nella consueta struttura ghibliana le inquietudini tipiche dell'animazione moderna, che riflette il problematico rapporto con la contemporaneità (ai tempi di Terramare qualcuno parlò intelligentemente di un Ghibli con un protagonista alla Evangelion).

Questo aspetto è evidente nella struttura un po' da “feuilleiton” (nel film si dice “da sceneggiato di terz'ordine”) incentrata sulla possibile parentela che arriva a frapporsi nella tenera storia d'amore tra due adolescenti, peraltro entrambi già gravati da un rapporto difficile con la memoria e un lascito paterno macchiato dal lutto della guerra. Non a caso l'ambientazione si sposta nel Giappone degli anni Sessanta, quando la nazione avvertiva i primi segnali del boom economico che l'avrebbe affrancata dalle distruzioni del secondo conflitto mondiale per immergerla nel rinnovato vigore da superpotenza emergente. Un momento in cui la nazione asiatica, affacciata alla modernità, poteva naturalmente riflettere anche sulla strada che andava ad abbandonare. Goro sottolinea questo contesto storico attraverso lo stesso lavoro espressivo sui paesaggi (di meravigliosa qualità pittorica) che aveva caratterizzato Terramare: si passa pertanto dalla quiete un po' fiabesca della collina in cui vive Umi, agli scenari nebbiosi del porto con le ciminiere e lo smog che descrivono uno spazio quasi spettrale – quadri che sembrano messi lì anche per richiamare le dimensioni onirico-mentali in cui a volte si ritrovano i protagonisti quando rivangano il passato e le vite dei genitori.

E' molto interessante notare, però, come tutta questa sovrastruttura “problematica”, da un lato segni una cesura abbastanza netta rispetto alla tradizione Ghibli, mentre dall'altra ne riverberi i tratti più essenziali. Affrancatosi dall'esordio fantasy di Terramare, infatti, Goro dimostra la sua predilezione per contesti più realistici - vicini a tanto cinema giapponese dal vero - dove l'amore per le creature fantastiche di papà Hayao è praticamente assente (mentre si può ravvisare una vicinanza a opere come I sospiri del mio cuore di Kazuhisa Kondo). All'allegoria e all'invenzione fantastica, Goro preferisce un approccio realistico, sebbene non privo di quella poesia visiva che è parte integrante del DNA Ghibli, dimostrando in questo modo una caratura autoriale forte e più in linea con i nostri tempi sempre più smarriti e in cerca di maggiore concretezza delle storie.

Ma, come già evidenziato, questo “distacco” avviene comunque nel segno della tradizione, poiché anche stavolta la dinamica che il film descrive è quella del confronto problematico fra progresso e tradizione, qui incarnato dalla figura del Quartier Latin, quasi un terzo personaggio nel triangolo amoroso descritto da Umi e Shun: l'edificio si pone infatti al crocevia fra un Giappone moderno, che guarda al ciclo distruzione-ricostruzione per gli imminenti Giochi Olimpici, e la memoria che il luogo naturalmente evoca con la sua storia prestigiosa. Il fatto che a farsi carico di preservare la funzione del posto siano i più giovani dice della posta in gioco evocata da Goro, disposto a farsi carico delle stesse istanze già raccontate dai veterani del Ghibli (pensiamo al Pom Poko di Isao Takahata, e al suo difficile rapporto fra natura e progresso urbano). Non a caso a scrivere troviamo sempre papà Hayao, segno di una centralità del rapporto padre/figlio che va al di là degli eventi narrati nella storia.

Un racconto poetico di due anime e dei giochi del destino diventa così una più ampia riflessione sui concetti cari allo Studio e all'autore stesso, che si dimostra il degno erede della tradizione di famiglia. Da non perdere anche le struggenti melodie cantate da Aoi Teshima (già sentita proprio ne I racconti di Terramare).


La collina dei papaveri
(Kokuriko-zaka kara)
Regia: Goro Miyazaki
Sceneggiatura: Hayao Miyazaki, Keiko Niwa
Origine: Giappone, 2011
Durata: 90'


Collegati:

Nessun commento: