La collina dei papaveri
1963. Umi è una
studentessa che ogni giorno issa sul pennone davanti alla casa in cui
vive delle bandiere nautiche: un segno che le permette di tenere vivo
il ricordo del padre, scomparso in mare durante la guerra di Corea. A notare
le insegne è invece Shun, figlio di un marinaio, che non può fare a
meno di notare il rituale mentre passa con il traghetto davanti alla
“collina dei papaveri” in cui vive Umi. L'amicizia fra i due
ragazzi ha modo di consolidarsi durante la comune partecipazione alle
iniziative studentesche volte a impedire l'abbattimento del Quartier
Latin, un antico edificio sede dei club scolastici. Il rapporto fra
i due ha così modo di maturare sempre più verso un sentimento più
profondo: ma un giorno Shun scopre che Umi potrebbe essere sua
sorella. Anche lui infatti è stato adottato e una foto sembra
ricondurre la figura del padre di entrambi alla stessa persona...
Il ricambio generazionale
tra le fila dello Studio Ghibli ha oggi un esponente di spicco nella
figura di Goro Miyazaki, figlio del celeberrimo Hayao, che, dopo
l'esordio con il sottovalutato I racconti di Terramare, ha
finalmente modo di dimostrare la sua forza autoriale grazie a questo
La collina dei papaveri. In effetti, il problema della
confusione/sovrapposizione con la figura del padre è evidente in
entrambe le pellicole che Goro ha diretto, dove non a caso il
problema si inquadra attraverso le figure di protagonisti umbratili e
alla perenne ricerca del proprio ruolo e della propria identità. Il
regista, pertanto, innesta nella consueta struttura ghibliana le
inquietudini tipiche dell'animazione moderna, che riflette il
problematico rapporto con la contemporaneità (ai tempi di Terramare
qualcuno parlò intelligentemente di un Ghibli con un protagonista
alla Evangelion).
Questo aspetto è
evidente nella struttura un po' da “feuilleiton” (nel film si
dice “da sceneggiato di terz'ordine”) incentrata sulla possibile
parentela che arriva a frapporsi nella tenera storia d'amore tra due
adolescenti, peraltro entrambi già gravati da un rapporto difficile
con la memoria e un lascito paterno macchiato dal lutto della guerra.
Non a caso l'ambientazione si sposta nel Giappone degli anni
Sessanta, quando la nazione avvertiva i primi segnali del boom
economico che l'avrebbe affrancata dalle distruzioni del secondo
conflitto mondiale per immergerla nel rinnovato vigore da
superpotenza emergente. Un momento in cui la nazione asiatica,
affacciata alla modernità, poteva naturalmente riflettere anche
sulla strada che andava ad abbandonare. Goro sottolinea questo
contesto storico attraverso lo stesso lavoro espressivo sui paesaggi
(di meravigliosa qualità pittorica) che aveva caratterizzato
Terramare: si passa pertanto dalla quiete un po' fiabesca
della collina in cui vive Umi, agli scenari nebbiosi del porto con le
ciminiere e lo smog che descrivono uno spazio quasi spettrale –
quadri che sembrano messi lì anche per richiamare le dimensioni
onirico-mentali in cui a volte si ritrovano i protagonisti quando
rivangano il passato e le vite dei genitori.
E' molto interessante
notare, però, come tutta questa sovrastruttura “problematica”,
da un lato segni una cesura abbastanza netta rispetto alla tradizione
Ghibli, mentre dall'altra ne riverberi i tratti più essenziali.
Affrancatosi dall'esordio fantasy di Terramare, infatti, Goro
dimostra la sua predilezione per contesti più realistici - vicini a tanto cinema giapponese dal vero - dove
l'amore per le creature fantastiche di papà Hayao è praticamente
assente (mentre si può ravvisare una vicinanza a opere come I
sospiri del mio cuore di Kazuhisa Kondo). All'allegoria e
all'invenzione fantastica, Goro preferisce un approccio realistico,
sebbene non privo di quella poesia visiva che è parte integrante del
DNA Ghibli, dimostrando in questo modo una caratura autoriale forte e
più in linea con i nostri tempi sempre più smarriti e in cerca di
maggiore concretezza delle storie.
Ma, come già
evidenziato, questo “distacco” avviene comunque nel segno della
tradizione, poiché anche stavolta la dinamica che il film descrive è
quella del confronto problematico fra progresso e tradizione, qui
incarnato dalla figura del Quartier Latin, quasi un terzo personaggio
nel triangolo amoroso descritto da Umi e Shun: l'edificio si pone
infatti al crocevia fra un Giappone moderno, che guarda al ciclo
distruzione-ricostruzione per gli imminenti Giochi Olimpici, e la
memoria che il luogo naturalmente evoca con la sua storia
prestigiosa. Il fatto che a farsi carico di preservare la funzione
del posto siano i più giovani dice della posta in gioco evocata da
Goro, disposto a farsi carico delle stesse istanze già raccontate
dai veterani del Ghibli (pensiamo al Pom Poko di Isao
Takahata, e al suo difficile rapporto fra natura e progresso urbano).
Non a caso a scrivere troviamo sempre papà Hayao, segno di una
centralità del rapporto padre/figlio che va al di là degli eventi
narrati nella storia.
Un racconto poetico di
due anime e dei giochi del destino diventa così una più ampia
riflessione sui concetti cari allo Studio e all'autore stesso, che si
dimostra il degno erede della tradizione di famiglia. Da non perdere
anche le struggenti melodie cantate da Aoi Teshima (già sentita
proprio ne I racconti di Terramare).
La collina dei
papaveri
(Kokuriko-zaka kara)
Regia: Goro Miyazaki
Sceneggiatura: Hayao
Miyazaki, Keiko Niwa
Origine: Giappone,
2011
Durata: 90'
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