"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

giovedì 28 marzo 2013

Un giorno devi andare

Un giorno devi andare

Augusta è fuggita dall'Italia per combattere il suo dolore e ritrovare se stessa. Seguendo l'amica suor Franca è giunta in Amazzonia, per confrontarsi con un'esperienza lontanissima da quella della vita cui è abituata. Ma ben presto capisce che il “professionismo” religioso non fa per lei e cambia strada. Sarà solo la prima di varie svolte nella perenne ricerca del proprio equilibrio. Nel frattempo, in Italia, la madre l'attende preoccupata...


“Una donna sente tutto con il corpo, gli uomini sono più focalizzati sulla mente”. Partiamo da questa frase dell'attrice Pia Engleberth (suor Franca nel film), perché ci fornisce un buon punto di partenza e di approccio alla terza pellicola di Giorgio Diritti: e ci permette anche di razionalizzare meglio l'andamento un po' ondivago del film, attento cioè a restituire la forza espressiva del paesaggio amazzonico (ovvero il corpo) senza però farsi fagocitare dal lirismo, dalla tendenza a perdersi in uno spazio talmente privo di confini da risultare a suo modo totalizzante e autosufficiente. Diritti si trattiene (usa la mente) e in questo senso riesce a comporre un film che, pur nella sua valenza documentaria rispetto alla realtà che esplora, sa essere anche un'esperienza – e viceversa.

Per certi versi è il film che Terrence Malick non riesce più a fare: paragone forse eccessivo, d'accordo, ma denota un pensare alto e altro che ormai vediamo di rado nel cinema italiano. L'aspetto più interessante è questa poesia della quotidianità, che non diventa mai né cifra stilistica principale, né impedimento alla sperimentazione. Al contrario, il regista si lascia ogni tanto abbandonare a qualche elaborazione visiva molto interessante, che crea un efficace contrappunto rispetto al naturalismo della fotografia. Abbiamo così vari momenti che si intrecciano lungo il racconto e che di volta in volta sembrano riflettere varie caratteristiche del cinema di questo anomalo autore: la concretezza di Ermanno Olmi (alla cui scuola Diritti si è formato), l'afflato libertario di un cinema non necessariamente italiano nella forma, e una tendenza alla narrazione che sta addosso ai personaggi, più direttamente vicina ai canoni della nostra industria. Si pensi agli intermezzi con la famiglia di Augusta, peraltro anche i più deboli e didascalici, i più evidentemente “fiction”, anche nella recitazione così compassata, in contrasto alla naturalezza delle scene amazzoniche.

Al centro di tutto, in fondo, c'è una protagonista in cerca di se stessa e che per questo agevola l'indeterminatezza ricercata dal progetto: una donna che, fra le righe, capiamo essere fuggita dopo aver appreso di non poter generare figli, ma che alle spalle ha pure la perdita di un padre che sembra averla particolarmente segnata. Diritti però cerca di dribblare le trappole della psicologia spicciola, lasciando questi particolari sullo sfondo, concentrandosi invece sui contrasti che Augusta genera nell'immediato, con la sua presenza “aliena” in uno spazio che lo spettatore percepirà comunque come eccezionale (nel senso vero e proprio di eccezione).

Ecco quindi le incertezze spirituali della donna, una certa qual ambiguità sessuale che non a caso le vale l'accusa di vestire e comportarsi come un uomo: non che si parli di pansessualità, sia chiaro, ma più che altro di una a-sessualità, una incapacità a vivere la propria dimensione fisica e umana fino in fondo, nonostante le occasioni che le si presentano (ed è una bella sfida con un'attrice molto fisica come Jasmine Trinca). Su tutto domina in particolare una tendenza al nomadismo, al continuo spostarsi di luogo in luogo: ogni qual volta sembra infatti che Augusta abbia trovato la sua dimensione, ecco che qualcosa la spinge a fuggire ancora. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di una dinamica del rimpiattino, perché il motivo che, al fondo, fa sempre continuare il viaggio è che ogni volta la protagonista scopre di non essersi riuscita a lasciare il proprio mondo “occidentalizzato” alle spalle.

Il film, in questo senso, è ammantato anche da una perenne malinconia da innocenza perduta, con la “civilizzazione” che torna sempre a presentarsi alla porta di Augusta attraverso varie forme: quelle della “cristianizzazione” coatta, quella della “globalizzazione” economica e degli spostamenti in massa di gente dalle proprie abitazioni verso i prefabbricati, con la scusa di una vita migliore; ma anche quella di un rapporto difficile tra gli stessi indigeni e quella natura così primitiva, violata non a caso dall'inquinamento, dalle bottiglie che ingombrano la superficie del Rio delle Amazzoni. Fiume che – quasi per contrappasso – spazza poi via le case quando è ingrossato dalla pioggia.

Augusta rifugge tutto questo e il film, sebbene abbastanza attento a non scadere nella trappola dell'opera a tesi, la segue in questa continua regressione (nel senso non negativo del termine) verso un primitivismo che la porta infine a restare sospesa nel nulla. Perché la posta in gioco è appunto tornare a sentire con il corpo, riappropriandosi di una dimensione personale che permetta il raggiungimento di una qualche completezza: non a caso fra le scene più significative di un finale che resta comunque aperto, c'è Augusta che gioca con un bambino. In quel momento è come se fosse diventata quella madre che non aveva potuto essere. E l'esperienza raggiunge una, seppur momentanea e forse anche precaria, conclusione.


Un giorno devi andare
Regia: Giorgio Diritti
Sceneggiatura: Giorgio diritti, Fredo Valla, Tania Pedroni
Origine: Italia, 2012
Durata: 110'

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