Un giorno devi andare
Augusta è fuggita
dall'Italia per combattere il suo dolore e ritrovare se stessa.
Seguendo l'amica suor Franca è giunta in Amazzonia, per confrontarsi
con un'esperienza lontanissima da quella della vita cui è abituata.
Ma ben presto capisce che il “professionismo” religioso non fa
per lei e cambia strada. Sarà solo la prima di varie svolte nella
perenne ricerca del proprio equilibrio. Nel frattempo, in Italia, la
madre l'attende preoccupata...
“Una donna sente tutto
con il corpo, gli uomini sono più focalizzati sulla mente”.
Partiamo da questa frase dell'attrice Pia Engleberth (suor Franca nel
film), perché ci fornisce un buon punto di partenza e di approccio
alla terza pellicola di Giorgio Diritti: e ci permette anche di
razionalizzare meglio l'andamento un po' ondivago del film, attento
cioè a restituire la forza espressiva del paesaggio amazzonico
(ovvero il corpo) senza però farsi fagocitare dal lirismo, dalla tendenza a
perdersi in uno spazio talmente privo di confini da risultare a suo
modo totalizzante e autosufficiente. Diritti si trattiene (usa la
mente) e in questo senso riesce a comporre un film che, pur nella sua
valenza documentaria rispetto alla realtà che esplora, sa essere
anche un'esperienza – e viceversa.
Per certi versi è il
film che Terrence Malick non riesce più a fare: paragone forse
eccessivo, d'accordo, ma denota un pensare alto e altro che ormai
vediamo di rado nel cinema italiano. L'aspetto più interessante è
questa poesia della quotidianità, che non diventa mai né cifra
stilistica principale, né impedimento alla sperimentazione. Al
contrario, il regista si lascia ogni tanto abbandonare a qualche
elaborazione visiva molto interessante, che crea un efficace
contrappunto rispetto al naturalismo della fotografia. Abbiamo così
vari momenti che si intrecciano lungo il racconto e che di volta in
volta sembrano riflettere varie caratteristiche del cinema di questo
anomalo autore: la concretezza di Ermanno Olmi (alla cui scuola
Diritti si è formato), l'afflato libertario di un cinema non
necessariamente italiano nella forma, e una tendenza alla narrazione
che sta addosso ai personaggi, più direttamente vicina ai canoni
della nostra industria. Si pensi agli intermezzi con la famiglia di
Augusta, peraltro anche i più deboli e didascalici, i più
evidentemente “fiction”, anche nella recitazione così
compassata, in contrasto alla naturalezza delle scene amazzoniche.
Al centro di tutto, in
fondo, c'è una protagonista in cerca di se stessa e che per questo
agevola l'indeterminatezza ricercata dal progetto: una donna che, fra
le righe, capiamo essere fuggita dopo aver appreso di non poter
generare figli, ma che alle spalle ha pure la perdita di un padre che
sembra averla particolarmente segnata. Diritti però cerca di
dribblare le trappole della psicologia spicciola, lasciando questi
particolari sullo sfondo, concentrandosi invece sui contrasti che
Augusta genera nell'immediato, con la sua presenza “aliena” in
uno spazio che lo spettatore percepirà comunque come eccezionale
(nel senso vero e proprio di eccezione).
Ecco quindi le incertezze
spirituali della donna, una certa qual ambiguità sessuale che non a
caso le vale l'accusa di vestire e comportarsi come un uomo: non che
si parli di pansessualità, sia chiaro, ma più che altro di una
a-sessualità, una incapacità a vivere la propria dimensione fisica
e umana fino in fondo, nonostante le occasioni che le si presentano
(ed è una bella sfida con un'attrice molto fisica come Jasmine
Trinca). Su tutto domina in particolare una tendenza al nomadismo, al
continuo spostarsi di luogo in luogo: ogni qual volta sembra infatti
che Augusta abbia trovato la sua dimensione, ecco che qualcosa la
spinge a fuggire ancora. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di
una dinamica del rimpiattino, perché il motivo che, al fondo, fa
sempre continuare il viaggio è che ogni volta la protagonista scopre
di non essersi riuscita a lasciare il proprio mondo
“occidentalizzato” alle spalle.
Il film, in questo senso,
è ammantato anche da una perenne malinconia da innocenza perduta,
con la “civilizzazione” che torna sempre a presentarsi alla porta
di Augusta attraverso varie forme: quelle della “cristianizzazione”
coatta, quella della “globalizzazione” economica e degli
spostamenti in massa di gente dalle proprie abitazioni verso i
prefabbricati, con la scusa di una vita migliore; ma anche quella di
un rapporto difficile tra gli stessi indigeni e quella natura così
primitiva, violata non a caso dall'inquinamento, dalle bottiglie che
ingombrano la superficie del Rio delle Amazzoni. Fiume che – quasi
per contrappasso – spazza poi via le case quando è ingrossato
dalla pioggia.
Augusta rifugge tutto
questo e il film, sebbene abbastanza attento a non scadere nella
trappola dell'opera a tesi, la segue in questa continua regressione
(nel senso non negativo del termine) verso un primitivismo che la
porta infine a restare sospesa nel nulla. Perché la posta in gioco è
appunto tornare a sentire con il corpo, riappropriandosi di una
dimensione personale che permetta il raggiungimento di una qualche
completezza: non a caso fra le scene più significative di un finale
che resta comunque aperto, c'è Augusta che gioca con un bambino. In
quel momento è come se fosse diventata quella madre che non aveva
potuto essere. E l'esperienza raggiunge una, seppur momentanea e
forse anche precaria, conclusione.
Un giorno devi andare
Regia: Giorgio Diritti
Sceneggiatura: Giorgio
diritti, Fredo Valla, Tania Pedroni
Origine: Italia, 2012
Durata: 110'
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