Il mago di Oz
Dorothy Gale vive nel
Kansas, nella fattoria degli zii, ma un giorno un tornado spazza via
l'abitazione, e la ragazza si ritrova così nel regno fantastico di
Oz. Per tornare a casa, Dorothty deve quindi raggiungere la Città di
Smeraldo e chiedere aiuto al potente Mago, l'unico in grado di
aiutarla. Durante il viaggio, Dorothy conosce poi tre nuovi amici: lo
Spaventapasseri, l'Uomo di Latta e il Leone Codardo, che decidono di
recarsi con lei dal Mago per ottenere rispettivamente un cervello, un
cuore e il coraggio. Ma quando il Mago accetta di riceverli, pone una
condizione per aiutarli: dovranno prima eliminare la perfida Strega
dell'Ovest, che l'ha giurata a Dorothy da quando la sua casa,
atterrando a Oz, ha ucciso la sua collega dell'Est.
A pensare che l'Oscar del
1940 era conteso fra Via col vento e Il mago di Oz
si rischia di restare immobilizzati come l'Uomo di Latta, non per la
ruggine, ma per lo stupore: perché vuol dire che due fra le
più importanti pellicole del cinema sono uscite praticamente nello
stesso momento! Inoltre – aspetto non meno curioso – entrambe
recano la firma dello stesso regista: Victor Fleming. In realtà il
film ebbe una lavorazione abbastanza travagliata, tipica del periodo
d'oro dello Studio System, tanto che vari registi si succedettero
dietro la macchina da presa, non accreditati: Norman Taurog girò un
breve test e poi Richard Thorpe iniziò ufficialmente le riprese,
salvo essere poi rimpiazzato con George Cukor. Ma il regista era già
stato scelto per dirigere proprio Via col vento e così
subentrò Fleming. Quando poi le gesta di Rossella O'Hara richiesero
un cambio di regia, Fleming fu dirottato sull'altro set, e il film fu
terminato da King Vidor: il regista di Duello al sole, però,
decise di non rivelare il suo coinvolgimento nel film fino alla
scomparsa di Fleming, cui era legato da una forte amicizia. In tutto
questo una mano la mise anche il produttore Mervyn LeRoy della MGM,
che del film può essere considerato il “vero” autore.
Questo gioco di scambi e
apparenze è fondamentale per comprendere la particolare natura del
film, tutta giocata proprio sul contrasto fra ciò che sembra e ciò
che realmente è: d'altra parte nessuno si è mai chiesto per quale
motivo Dorothy voglia abbandonare un posto così bello e colorato
come Oz per tornare nel grigiore del Kansas a scontrarsi con la
perfida Miss Gulch? Qualcuno magari obietterà che all'inizio la piccola sogna un mondo oltre l'arcobaleno, ma è un dato di fatto che appena mette piene nel regno incantato il desiderio di tornare a casa sovrasta ogni altra cosa. E' la chiave per comprendere come il racconto
sostanzialmente ponga la realtà come ambito “giusto” e
l'altrodove fatato come un mondo evanescente e a conti fatti indegno di essere considerato come proprio. L'espediente stesso di
dare ai personaggi di Oz le fattezze dei comprimari di Dorothy nella
fattoria del Kansas (inesistente nel romanzo originale di Baum) mira
a fare di Oz un semplice sogno (magari un incubo) per una rete di
relazioni personali che stanno tutte nella realtà.
Questo perchè Il Mago
di Oz, sfrondato dalla sovrastruttura musical e fantasy, è un
film che respira del tempo problematico in cui viene realizzato: gli
Stati Uniti del dopo collasso economico e della forte divisione
sociale (rappresentati dalla perfida Miss Gulch che “possiede tutto
il paese” e spadroneggia sui poco abbienti Gale) e l'orizzonte di
un tumulto storico (che oggi possiamo leggere come la vicina Seconda
Guerra Mondiale) ben rappresentato dal tornado che strappa la bambina
alla propria terra. L'esperienza di Oz diventa così catartica e non
a caso Dorothy la sfrutta per “punire” la strega e ricostruire un
tessuto fatto di legami affettivi forti, con cui fare fronte comune
di fronte al Male.
Si tratta quindi di un
classico racconto di formazione, in cui i protagonisti devono potersi
confrontare con se stessi, per scoprire il valore delle loro
potenzialità nascoste. Così, non solo Dorothy riesce a vincere la
paura rappresentata da Miss Gulch/la Strega, ma anche i suoi
comprimari dimostrano di possedere già i doni che vorrebbero dal
Mago: l'intelligenza per lo Spaventapasseri (che ha sempre le idee
giuste) e la bontà d'animo per l'Uomo di Latta. Ciò che fa la
differenza è la cognizione del proprio merito, che matura
solo attraverso il confronto con l'imprevisto, l'avventura e il
pericolo. In tutto questo, l'unica parziale eccezione è data dal
Leone, davvero un gran Codardo, sul quale risulta maggioritaria la
dinamica “buffa” necessaria a rendere l'interazione fra i
personaggi più varia (e a veicolare le simpatie del pubblico). Il
Mago, da par suo, diventa un mero spettatore, che alla fine risolve
le contraddizioni con un po' di furbizia e tante buone intenzioni (segno della semplicità dei tempi dove la ricetta è affidarsi al buon senso e all'unione fa la forza).
Si citava prima però il
contrasto fra l'apparenza e la sostanza. Perché, anche dopo ripetute
visioni, questa scansione così rigida fra ragione e sentimento
continua a non convincere del tutto. Nel senso che si avverte una
sorta di tensione interna che cozza con l'intento “educativo” e
tutto sommato “normalizzante” della storia. E' come se, insomma,
gli autori “sfruttassero” la morale edificante che invita a
tenere i piedi per terra e a considerare casa propria come il miglior
posto del mondo, soltanto per avere l'alibi necessario a ciò che
realmente interessa loro: poter mettere in scena un irresistibile
universo fantastico. Della serie: accetto di dover dire per motivi
“istituzionali” che il grigio Kansas è migliore del colorato Oz,
ma alla prova dei fatti ti dimostro che è tutto il contrario!
Non si spiegherebbe
altrimenti lo slancio che la storia dimostra una volta che
l'avventura si sposta a Oz, la forza attrattiva del technicolor, i
set rigogliosi che creano una frattura insanabile con l'orizzontalità
piatta dei campi incolti che circondano la fattoria di Dorothy nel
Kansas. E quei magnifici numeri musicali che oltre a imprimersi in
maniera indelebile nella mente dello spettatore, esaltano
perfettamente la fisicità degli interpreti e ne rivelano una volta
di più i contrasti. Abbiamo così una Dorothy forte ma fragile
(senza contare il curioso contrasto di una Judy Garland troppo grande
per il ruolo ma ugualmente irresistibile), uno Spaventapasseri
iperattivo e dinoccolato, un Uomo di Latta la cui rigidità si
stempera nei modi gentili, e un Leone che, sebbene pusillanime nel
cuore, non perde una certa magnificenza nell'aspetto.
Alla fin fine Oz è –
visivamente e musicalmente, prima ancora che su un piano meramente
narrativo – un crocevia di suggestioni molto varie ed è questa sua
forza a rendere il film un classico, cui la morale edificante deve
soggiacere, nonostante i tentativi di risultare preminente. D'altra
parte il cinema è grande quando riesce a elaborare visivamente i
suoi spunti, e il film sta lì a ricordarlo come pochi.
Il mago di Oz
(The Wizard of Oz)
Regia: Victor Fleming
(e altri, non accreditati)
Sceneggiatura: Noel
Langley, Florence Ryerson, Edgar Allan Woolf (e altri, non
accreditati)
Origine: Usa, 1939
Durata: 101
3 commenti:
ok è sicuramente un film che ha fatto storia, girato bene, brava la garland ecc, ma mi picchi se ti dico che il sequel del 1985 con Fairuza Balk, per me è 100 volte meglio???
Un po perchè i musical non li sfango, e questo se non erro cantavan parecchio, un po perchè il sequel è un cult della mia infanzia e in alcune scene sembrava quasi un horror: l'inizio nel manicomio, il finale con il "re degli gnomi" incazzato da bestia, per me un filmone il sequel che nessuno ha mai considerato ;-)
Il sequel lo recensisco a breve.
Grande ;-)
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