Killer Joe
Chris è un giovane
spacciatore e deve 6000 dollari al suo fornitore: per racimolare la
somma necessaria decide di eliminare sua madre, in modo da
riscuoterne l'assicurazione sulla vita. A compiere materialmente
l'omicidio sarà Joe Cooper, un poliziotto locale che “arrotonda”
le sue entrate come killer. Chris ha un complice nel padre, che lo
aiuterà a organizzare la cosa. Joe accetta di fare il lavoro, ma
poiché i due non sono in grado di garantirgli la caparra, chiede (e
ottiene) di poter fare l'amore con Dottie, la sorella innocente di
Chris. Così, il ragazzo deve barcamenarsi fra l'esigenza di
racimolare il denaro e il forte senso di protezione per la sorella,
che non sopporta di vedere trattata da Joe come la sua donna. E
quando poi si scopre a chi è intestata davvero l'assicurazione sulla
vita della madre, Chris inizia a trovarsi nei guai...
Avevo perso un po' di
vista William Friedkin, che effettivamente non girava un film da più
di un lustro. Ma ancora più temevo che l'ambiguità, da sempre suo
marchio di fabbrica, si fosse un po' stemperata nella confusione che
affliggeva due film pure interessanti come Regole d'onore o
Bug (quest'ultimo peraltro molto amato in rete). Invece, per
fortuna, il regista di Cruising e L'esorcista non ha
perso il tocco e il suo ritorno avviene nel segno di un'altra grande
pellicola! Killer Joe, peraltro, è un po' uno speculare del
già citato Bug: come quello è infatti tratto da una pièce
teatrale di Tracy Letts (anche sceneggiatore) e trova la sua maggior
forza espressiva nelle scene d'interni, quando i personaggi lasciano
esplodere i conflitti e le tensioni umane, parentali e sessuali che
il racconto dissemina lungo il suo percorso.
Stavolta però ci sono
due valori aggiunti: il primo è il tono. Friedkin riesce ad
affrontare gli argomenti a lui cari attraverso un tono in perenne opposizione alle apparenze. Il film, infatti, è serissimo nel
mettere in scena un ritratto di degradazione umana a dir poco
devastante, ma lo fa con l'arma dell'ironia e del grottesco. Killer
Joe è insomma un noir, ma appare quasi una parodia del genere, per
la costante ricerca di un sopra le righe che diventa perfetta forma
espressiva di un universo impazzito. Il regista riesce così a rendere il grottesco un linguaggio flessibile, in grado di colpire lo
spettatore divertendolo, ma senza mai celare lo squallore dello
scenario che racconta.
L'altro punto di forza è
il casting, in cui Friedkin continua questo discorso di rovesciamenti
e, allo stesso tempo, crea risonanze eccellenti. Se vedere Emile
Hirsch nell'inedito ruolo di “cattivo” o il granitico Tomas
Hayden Church come vecchio padre fallito può già apparire
interessante, è nella scelta di Juno Temple e, soprattutto, di
Matthew McConaughey che l'autore colpisce nel segno. La prima riesce
infatti a fare propria l'ambiguità friedkiniana risultando allo
stesso tempo tenera e non priva di una sensualità anche disturbante
per come l'idea della sua violazione fisica si sposa alla perdita
dell'innocenza. Non a caso Dottie ci viene sì presentata come una
ragazzina tenera e un po' svanita, una sorta di fiore cresciuto nel
mezzo del nulla, ma anche come un corpo adulto che genera sogni
conturbanti nello stesso fratello Chris. La tensione sessuale e
quella parentale, insomma, sono legate in modo molto fitto. E Dottie
è poi anche il personaggio più complesso, come dimostra la sua
preminenza nel finale.
McConaughey è invece
Joe, personaggio apparentemente fuori contesto, con la sua parlata
sempre modulata sui toni bassi (rigorosamente da gustare in versione
originale), il suo abito nero che lo connota come personaggio
iconograficamente ben definito, ma allo stesso tempo ne annulla
quella fisicità che pure il regista non dimentica quando ci mostra
l'attore completamente nudo. Joe, insomma, oscilla fra la
sovrastrutturazione iconica di un corpo perfettamente costruito (che
sembra uno scampolo impazzito di Cruising improvvisamente
calato nel corpo del film) e lo stemperarsi di un personaggio che si
muove dietro le quinte, fra le pieghe della legalità, nel doppio
ruolo di tutore della legge e di suo distruttore. Anche qui Friedkin
elabora visivamente il concetto quando trasfigura Joe nella sua
ombra, ritagliandone l'inconfondibile sagoma con il cappello.
Eppure Joe è, alla fin
fine, l'elemento di coesione di questo universo in disfacimento: non
a caso è lui a officiare la cena finale che dovrebbe sancire il suo
ingresso “in famiglia”. Qui Friedkin gioca di sponda con le
risonanze create dall'attore, ricordando la sua partecipazione a Non
aprite quella porta IV: tutta la scena finale della cena appare
infatti una trasfigurazione in senso lato degli umori impazziti che
serpeggiano nella saga di Leatherface, e ci ricordano che Killer
Joe è – a conti fatti – un film horror, perché possiede la
lucidità politica del genere, lo sguardo critico nei confronti delle
istituzioni precostituite (come la famiglia). Perché sa giocare con
i cliché e i personaggi e nel mettere in scena il disfacimento di un
nucleo familiare, ne rafforza la portata iconica e tragica. Ed è un
cinema di corpi, esaltati e allo stesso tempo violati, sempre
incapaci di celare la mostruosità dell'animo o, magari, di
sottolinearla attraverso il gioco degli opposti. Un lavoro che fa
capire davvero come il casting e la regia qui sfiorino la perfezione.
Killer Joe
(id.)
Regia: William
Friekdin
Sceneggiatura: Tracy
Letts (dalla sua pièce teatrale)
Durata: 100'
Origine: Usa, 2011
1 commento:
che FILMONE questo Killer Joe, sono andato a vederlo al cinema e quando sono uscito dalla sala ero frastornato, tutta la sequenza finale è di una perversione unica, una cattiveria che veramente mette a disagio, ma allo stesso tempo diverte.
Grande Friedkin e grande cast, McCounaghey sta iniziando a sorprendermi, fino a qualche anno fa lo si vedeva solo nelle commediaccie romantiche squallide e perbeniste dove lui pareva incartonato, ma da un po di tempo a questa parte sta dimostrando di avere un certo talento, in questo film è veramente bravo.
Un ritorno coi fiocchi per Friedkin dopo il (a mio avviso) non riuscito Bug.
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