"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

mercoledì 28 novembre 2012

Torino 30+5

Torino 30+5

Scende la pioggia su Torino e l'atmosfera si fa seria: potrebbe apparire un paradosso dopo il lunedì delle visioni oscure, ma in questo caso la “serietà” cui si fa accenno è quella del cinema che guarda al reale e orienta la sua attenzione sui problemi della società o della Storia (quella rigorosamente con la maiuscola). Per carità, niente di cui spaventarsi perché, come si potrà notare, al solito la ricetta è ricca di ingredienti.
L'inizio è infatti affidato a K-11, di Jules Stewart, ex montatrice ipertatuata che balza agli onori della cronaca soprattutto per essere la mamma di Kristen, l'eroina di Twilight. Ma le atmosfere del suo film non potrebbero essere più distanti da quelle di Edward e Bella: l'ambientazione è infatti un anomalo braccio di detenzione carceraria, dove vengono stipati drogati, transessuali e pedofili. L'accostamento delle figure è politically incorrect e in effetti si capisce subito che la Stewart vuole giocare con i cliché, inseguendo modelli “alti” come John Waters o Russ Meyer, al punto che la “regina” di questo “girone infernale” è una novella Tura Satana (un'incredibile performance di trasformismo da parte dell'attrice messicana Kate del Castillo). La ricetta è talmente bizzarra da essere affascinante, ma il finale “buonista” finisce naturalmente per scontentare i cinefili più incalliti.
A spostarsi poi nell'altro titolo della sezione Rapporto Confidenziale si rischia di andare fuori percorso: cosa potrà mai avere di realista un film come Shopping Tour (di Mikhail Brashinsky), in cui una madre russa e il figlio adolescente si ritrovano in balia di finlandesi decisi a sbranarli dopo aver attraversato il confine? E' presto detto: il film insegue il filone del “Point of View Cinema” e viene narrato attraverso i filmati amatoriali che il giovane realizza dal suo telefono cellulare. Una sorta di REC “in movimento”, che ha il pregio di divertirsi a mettere in scena una situazione paradossale e volutamente autoparodistica, ma attraverso uno stile e un tono serissimi. Ecco dunque che i finlandesi sbranano gli stranieri in ossequio a una... antica tradizione culturale (!). E così, anche qui il gioco sui cliché è servito. Un film simpatico, ma che praticamente è monco di un finale (meglio avvisare per tempo gli spettatori che potrebbero restare delusi).
Nessuna possibilità di mancare l'obiettivo, invece, con il film in concorso Az do mesta As/Made in Ash, che è addirittura il rappresentate per l'Oscar della Cecoslovacchia ed è diretto dalla giovane Iveta Grofova: è la storia, indubbiamente drammatica e seria, di una ragazza slovacca inviata dai genitori nella Repubblica Ceca per trovarsi un lavoro. Ma l'occupazione sfuma in fretta e le strade che si aprono per la malcapitata sono la prostituzione o magari accettare l'offerta di un tedesco che la vorrebbe portar via in Germania. Una proposta fragile (l'uomo è sposato), che si scontra con i sogni traditi di una giovane che attende l'ex fidanzato dalla Slovacchia. Il racconto è dolente, ma ha il pregio di cercare un interessante punto di incontro fra una trattazione documentaristica della situazione e una tensione espressionista che lavora sull'inquadratura, con uso lirico del fuori fuoco e fugaci sequenze animate che elaborano il passaggio dalla dimensione ideale in cui la protagonista è immersa a un mondo reale pieno di trappole.
Infine la pellicola più controversa del lotto, il francese Le fils de l'autre, di Lorraine Levy (Festa Mobile): due famiglie, una ebraica e una palestinese, scoprono che i loro figli (ora adolescenti) sono stati scambiati nella culla. La situazione, già complessa di per sé, è naturalmente aggravata dai celeberrimi problemi che uniscono e dividono Israele e Palestina e che costringono i due ragazzi a fare i conti non solo con la propria identità, ma anche con le differenti opportunità offerte dalle rispettive condizioni. Come da prassi, il cinema francese si dimostra narrativamente empatico con il dramma dei personaggi, delicato in molti passaggi e cerca di far sì che lo spettatore si senta un tutt'uno con figure lacerate e in cerca di un punto d'equilibrio. La materia però è talmente incandescente che la reticenza con cui la storia evita di andare a fondo nelle implicazioni enormi portate dal dramma finisce per rendere il film esemplificativo (soprattutto nella seconda parte) e ne smorza molte buone intenzioni. La vicenda ha comunque il merito di fare luce su un problema irrisolto, riletto in chiave non tanto storica quanto umana e “intima”, lasciando sullo sfondo le figure che rappresentano l'autorità (uno dei due ragazzi è figlio di un colonnello dell'esercito israeliano). E infatti i riconoscimenti internazionali non stanno mancando: il pubblico italiano potrà comunque giudicare con i suoi occhi fra un paio di mesi, quando la pellicola sarà distribuita nelle nostre sale.

1 commento:

fabio ha detto...

azz, no sapevo che la Stewart avesse una mamma nel cinema, pergiunta tatuata e che fa film tosti...

Poveretta immagino l'imbarazzo che provi nel vedere sua figlia recitare in Twilight :-/