The Cell
Catherine Deane è un'assistente sociale e lavora in un laboratorio dove si sperimenta una tecnica innovativa: grazie a una particolare tecnologia è infatti possibile entrare nei sogni dei pazienti autistici, per cercare di entrare in relazione con essi e permettere così il loro ritorno nel mondo. Nel frattempo, l'FBI è alle prese con un serial killer che rapisce giovani donne per poi ucciderle in un secondo momento attraverso un meccanismo a tempo. Grazie alla pervicacia dell'agente Peter Novak, il killer, Carl Rudolph Stagher, viene catturato, ma è in stato di incoscienza a causa della mancata assunzione dei farmaci necessari a tenere sotto controllo la sua rara malattia genetica. L'FBI ha poco tempo a disposizione per capire dove si trovi la ragazza che la trappola di Carl rischia di uccidere: perciò Novak si rivolge a Catherine, affinché entri nella mente del killer.
A volte conviene posporre la valutazione di un film per recuperarlo in un secondo momento. Non soltanto perché una seconda visione permette di relazionarsi a un'opera con più serenità – ancor più se si tratta di un lavoro controverso – ma anche e soprattutto perché è possibile constatare quanto il film stesso abbia nel frattempo seminato. All'epoca dell'uscita nelle sale, molti – compreso il sottoscritto – trovarono The Cell irrisolto e derivativo rispetto ai canoni di certo thriller/horror che aveva tenuto banco negli anni Novanta (con particolare riferimento a Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme).
Invece, a rivederlo oggi, il film di Tarsem Singh appare innanzitutto come un evidente anticipatore di certe dinamiche dell'horror alla Saw, per il rapporto quasi feticistico con il tema del corpo vilipeso e martoriato e per le trappole tecnologiche dell'assassino; non va inoltre sottovalutata l'influenza (o quantomeno l'osmosi) del film rispetto a una certa concezione del poliziesco televisivo codificato da alcune serie (l'attrice Marianne Jean-Baptiste, peraltro, è poi passata a Senza traccia). Già qui, dunque, il lavoro di detection passa necessariamente per una spettacolarizzazione dei metodi utilizzati, che finiscono per diventare strumento avulso e autosufficiente rispetto al caso di turno.
Pertanto, non dobbiamo recriminare nulla a Tarsem, che per sua stessa ammissione è poco interessato al caso poliziesco in quanto tale (sebbene, a una nuova visione, la parte puramente poliziesca si integri abbastanza bene a quella onirica) e preferisce sfruttare invece la componente fantastica insita nell'esperimento e nel viaggio nel mondo dei sogni per dare corpo alle sue visioni.
Sotto questo aspetto il film già offre spunti interessanti: l'universo onirico immaginato dal regista è infatti coerente con la solennità che ritroviamo poi in Immortals e si basa sulla messinscena scenograficamente accurata, con figure poco mobili e movimenti di macchina non elaborati che evocano una certa teatralità degli spazi, a metà fra il recupero di un certo coté filmico da peplum del muto e l'installazione artistica. Si rimanda in questo senso all'articolo linkato in calce che analizza le influenze artistiche dirette della pellicola. Quello che qui ci interessa piuttosto sottolineare è la capacità di tenere insieme la fissità dei “quadri” di volta in volta creati o ricreati, con una fisicità prepotente che finisce per rendere estremamente materico il film, creando una vertigine sensoriale non comune.
Risulta di grande merito anche il lavoro compiuto sugli attori, scelti secondo una logica che appare quasi del miscasting: a un primo approccio Jennifer Lopez sembra infatti un'attrice decisamente poco indicata per il ruolo dell'assistente sociale fragile e dagli istinti materni. In realtà Tarsem mira a coniugare ancora una volta sensazioni opposte e per fare ciò ha bisogno di attori fisicamente molto presenti, ma capaci di abbandonarsi a personaggi deboli e segnati da ferite. Che sono fisiche, come quelle che si autoinfligge Car/Vincent D'Onofrio, o interiori, come quelle di Novak/Vince Vaugh o della stessa Lopez. Non a caso poi la discesa nella realtà onirica diventa anche un momento di confronto con le proprie pulsioni interiori e di rovesciamenti di ruoli e sensazioni, in cui Catherine può assumere il ruolo di una inquietante virago e Carl diventare invece una vittima delle esperienze pregresse.
La logica che anima il film è dunque duplice: da un lato c'è lo spazio scenico su cui l'autore si muove con grande libertà, mettendo in scena le immagini che compongono il suo immaginario e che risultano pertanto codificate, rigide. Dall'altro c'è un continuo movimento degli elementi che rende il film particolarmente sfuggente e magmatico. In virtù di questa scioltezza, The Cell si dimostra anche un film ludico e divertito, pur nella serietà dei drammi che mette in scena, che si diverte a giocare con i ruoli, sovvertendoli e falsando le aspettative dello spettatore sin dalle primissime inquadrature.
La struttura è dunque a strati, e stupisce che i livelli percettivi (realtà e sogno) restino comunque sempre distinti a livello narrativo: soltanto in un momento (quando Catherine si risveglia sul letto della clinica non rendendosi conto di essere già nel sogno) si sfrutta la possibilità di intrecciarli, ma poi il film preferisce lasciar perdere per continuare a mettere in scena le sue ossessioni attraverso la dinamica dell'opposizione e del ribaltamento.
The Cell – La cellula
(The Cell)
Regia: Tarsem Singh
Sceneggiatura: Mark Protosevich
Origine: Usa, 2000
Durata: 107'
(The Cell)
Regia: Tarsem Singh
Sceneggiatura: Mark Protosevich
Origine: Usa, 2000
Durata: 107'
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