Sergio Bonelli non c'è
più
Sergio Bonelli non c'è
più. La formattazione del blog fa sì che questa frase si ripeta per
tre volte di seguito (fra titolo, sottotitolo e inizio del testo), e
non è casuale. E' infatti necessario metabolizzare la scomparsa del
più grande editore italiano di fumetti, una figura altrimenti
creduta eterna e capace di attraversare indenne le epoche, come una
certezza, un baluardo di stabilità nel continuo fluire delle cose. E
invece un giorno come tanti ci svegliamo e ci rendiamo conto che così
non è.
Il concetto di tempo
peraltro è quanto mai opportuno per ricordare la figura di Bonelli:
tempo che per molti è quello passato. A scorrere i commenti in giro
per la rete sembra infatti che l'unica prospettiva possibile dalla
quale inquadrare il lavoro dell'editore milanese sia quella della
nostalgia. Molti ricordano di essere “cresciuti” con i fumetti di
Bonelli, alcuni addirittura di aver imparato a leggere con essi, di
come Tex o Zagor o anche Dylan Dog siano stati compagni
dell'adolescenza. Sempre dunque eroi di un tempo lontano, fatto che
lascia presupporre che a un certo punto siano stati abbandonati e
confinati nell'alveo dorato della memoria.
La cosa mi colpisce
perché, al contrario, per me il nome di Bonelli è da sempre
declinato al presente, da lettore delle testate attuali: innanzitutto
Nathan Never, che solo con il festeggiamento del ventennale
quest'anno inizia a essere considerato a tutti gli effetti un
“classico”, e poi la collana dei Romanzi a fumetti o le
miniserie come Caravan, Greystorm e Lilith.
Perché, in effetti è vero che ogni generazione ha avuto e ha
tuttora il “suo” Bonelli e qui ci si inserisce a gamba tesa
nell'eterno dibattito se egli sia stato o meno un conservatore o un
innovatore: provate a intavolare il discorso in un qualsiasi ambito
fumettistico, vedrete che i fronti sono perfettamente divisi, c'è
chi pensa che il suo grande torto sia stato quello di non essersi mai
voluto adeguare ai tempi, chi invece ha apprezzato la capacità di
sperimentare formati e nuove testate pur nell'ambito di un impianto
ben consolidato e alieno alla facilità delle mode del momento.
Proprio l'anno scorso,
visitando la bellissima mostra itinerante L'audace Bonelli che
ha fatto tappa anche in Puglia, a Brindisi, riflettevo ancora una
volta su questa natura sfuggente, che di fatto rende Bonelli un
classico, una figura dunque perfettamente a metà fra tradizione e
innovazione, allo stesso modo con cui lui portava in giro la sua aura
di leggenda con la disinvoltura dell'appassionato ancora capace di
emozionarsi per una storia o un disegno. Che è poi la sensazione
che provo ogni volta che sfoglio quegli albi in bianco e nero, dove
percepisci il segno della china e quella fattura “artigianale”,
da bottega degli artisti che neppure l'uso più recente del retino
riesce a scalfire. Alla base c'è infatti la fiducia in una forma di
racconto che si avverte sempre contemporanea, anche quando guarda al
passato, perché in effetti i meccanismi dell'avventura sono sempre
in grado di affascinare: mi viene in mente un azzardato paragone con
Avatar, che nel dispendio più alto di tecnologia oggi
immaginabile, accarezza ancora un'ideale di avventura pieno e
tradizionale, distante da contorcimenti narrativi e tutto orientato a
sentimenti di empatia con i personaggi. Il collegamento arriva dunque
non soltanto con Sergio, ma anche con il suo grande padre Gian Luigi,
l'inventore di Tex, il quale confessava di vincere l'ansia del foglio
bianco solo quando sentiva di riuscire a partecipare emotivamente e
intimamente delle imprese e dei sentimenti del suo eroe.
Alla fine è tutto qui:
Bonelli lo si è sentito per tanto tempo come una figura vicina
perché parlava un linguaggio universale che toccava corde
profondamente radicate in un immaginario globale che da un lato
riusciva a intercettare con l'atteggiamento scafato dell'editore di
razza (si pensi al citazionismo esasperato di alcuni fra i suoi eroi
più moderni), e che dall'altro sapeva veicolare bene creando a sua
volta uno stile e una serie di consuetudini che hanno fatto scuola.
E' per questo che i suoi personaggi sono anche in eterna oscillazione
fra l'ideale “passato” dell'eroe tutto d'un pezzo (categoria dove
probabilmente Tex risalta maggiormente) e quello moderno e
postmoderno del protagonista insofferente, problematico e
perfettamente dentro alle vicissitudini esistenziali dei tempi
più complessi (da Mister No a Ken Parker a Nathan Never), capaci per
questo di essere coerenti con epoche di transizione.
Dentro al fluire del
tempo, ma impermeabile ad esso dunque. Forse “bonelliano” vuol
dire semplicemente questo.
2 commenti:
Un grande dispiacere, un grande vuoto, pieno di storie e di amori
Bellissimo post. Non aggiungo nulla, se non che io è da quasi vent'anni ininterrotti che leggo fumetti: Zagor e Tex hanno rappresentato la mia infanzia (e al contrario di molti, che purtroppo li hanno persi di vista con l'avanzare dell'età, io li seguo tutt'ora, insieme a Dylan Dog e Martin Mystère, con ancor più enfasi di quando ero piccolo), e si può dire per davvero che sono cresciuto con le loro storie. Che non sono solo di livello qualitativo eccelso (faccio riferimento a quelle scritte da Bonelli nelle vesti di Guido Nolitta, dei capolavori di epicità e sense of wonder), ma hanno anche saputo trasmettermi i valori che hanno fatto di me quello che sono.
Con la morte di Bonelli non abbiamo perso solo un gigante dell'editoria, ma anche un amico vero con cui la generazione mia e quella precedente è cresciuta. Penso a mio padre che dice spesso "più che la chiesa sono state le storie di Tex a trasmetterci il valore della tolleranza" e non riesco a non essere d'accordo con lui.
Per questo, più di qualsiasi altro vip che lascia questo mondo, la morte di Bonelli mi ha lasciato dentro un magone che ancora non sono riuscito a metabolizzare.
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