"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 3 ottobre 2011

Drive

Drive


E' uno stuntman per l'industria hollywoodiana, ma nelle notti di Los Angeles è anche il miglior autista possibile per compiere una rapina. Un giorno però qualcosa cambia, quando conosce la famiglia che vive nell'appartamento accanto al suo: Standard, il padre, è in prigione e a casa lo aspettano sua moglie Irene e il piccolo Benicio. Una volta uscito, Standard viene ricattato dalle persone cui deve dei soldi, che minacciano di far del male ai suoi cari. Così lui li aiuta, mette a disposizione il suo talento per una rapina a un banco di pegni che dovrebbe saldare ogni debito, ma l'imprevisto è in agguato: Standard viene ucciso, era tutta una trappola, e Irene e Benicio sono i prossimi sulla lista. L'unica possibilità di garantire la loro salvezza è saldare i conti con la forza.


C'è una costante evoluzione in atto nel cinema di Nicolas Winding Refn, bastano le prime battute a precipitarci infatti in un universo dove le ossessioni che corrono sottotraccia sono ancora le stesse, ma la superficie è differente, ormai lontana dagli umori che deflagravano potenti nella trilogia di Pusher, punta di diamante della prima fase della sua produzione. Così, ci si aspetterebbe di trovare dietro il volante ancora una volta il volto iconico del magnifico Mads Mikkelsen, espressione dei tanti animi inquieti che hanno abitato le storie di Refn, ma invece lo sguardo è quello non meno ieratico di un Ryan Gosling che gioca comunque con le pulsioni trattenute dei suoi predecessori, come il Lenny di Bleeder o il One Eye di Valhalla Rising, in un gioco di distanze e avvicinamenti che più di ogni altra cosa ci dice dell'operazione in atto.

Il regista danese tende infatti a mutare la forma del suo cinema tanto più quanto i suoi temi, i suoi feticci e il suo stile si intrecciano con la tradizione di una cultura altra e di un genere codificato quale può essere, in questo caso, il noir americano: Refn dimostra di conoscere perfettamente le opere dei maestri, le varie articolazioni e dinamiche di queste storie, le ossequia ma allo stesso tempo tenta di aggirarle e superarle attraverso una dimensione personale che permetta a Drive di andare oltre il semplice ricalco stilistico, innescando un gioco di riconoscibilità e differenze con il passato (proprio e altrui).

Sono dunque cambiati i volti, ed è cambiato anche lo spazio, immersi come siamo in una realtà magmatica che scivola senza soluzione di continuità fra le tonalità vagamente psichedeliche delle notti losangeline e gli esterni soleggiati dove si svolge la vita quotidiana. Qui sta l'altro elemento significativo, quello che permette al film di creare lo scarto necessario a non mettere in scena una dicotomia fra le sue due personalità, che poi sono le due del protagonista, ma una coesistenza delle stesse. Non, dunque, notte contro giorno, ma una sorta di interregno di luci e ombre dove il “Driver” può essere stuntman, meccanico e rapinatore in pieno giorno, rompendo in questo modo il presupposto che pure le battute iniziali della storia sembravano porre in essere attraverso la contrapposizione fra un'attività notturna e una diurna.

Così, al pari sempre del One Eye di Valhalla Rising, ma con una consapevolezza teorica che discende direttamente da esperimenti come quello di Fear X, l'autista stabilisce il tono della vicenda, conferendogli quell'andamento a metà fra sonnambulismo e fiaba, in un alternarsi di lontananza e vicinanza che piega la stessa forma del racconto agli stati d'animo di volta in volta messi in campo. Non a caso, rispetto al romanzo originale di James Sallis, Refn opera per una ricomposizione del racconto, rompendo l'alternanza fra passato e presente, e riconducendo l'intera storia a un tempo unico, pur sfruttando il montaggio parallelo per creare punti di contatto fra momenti comunque distanti. Si crea in questo modo una zona intermedia, in cui i tempi sono continuamente riscritti, le luci cambiano come in un noir di Edgar Ulmer e il personaggio può passare dal ruolo di criminale a quello di figura protettiva e comprensiva nei confronti di una famiglia con cui instaura comunque un rapporto sempre a distanza, quasi come un intruso che – a parte l'inevitabile resa dei conti finale – finisce per istillare più dubbi che sicurezze: si veda a tal proposito la bella sequenza sul pianerottolo, dove si percepisce una latente forma di nervosismo fra il personaggio e Standard, intento a gettare l'immondizia.

La tensione per un qualcosa che ribolle sotto la superficie è in definitiva l'autentica sostanza nascosta del film, che riesce a sfruttare uno stile sinuoso, con movimenti di macchina morbidi e personaggi che sembrano scivolare fra spazi di volta in volta dilatati pur nella minima distanza che li separano (i due appartamenti adiacenti): tutto questo rende pertanto pleonastico il ricorso alla “figura retorica” dell'inseguimento automobilistico, qui negato e spesso “congelato”, quando non ridotto a pochi momenti dove comunque non viene trasmessa l'impressione della velocità, ma al contrario tutto si riduce non a caso a un mascheramento con gli elementi architettonici e gli interstizi offerti dalla città, in una continua frammentazione dell'azione. Al pari del mascheramento finale dello stesso autista, della sua natura ibrida suggerita anche dalla professione di body-double per l'industria cinematografica, siamo nel pieno regno di una figura fantasmatica, che non a caso trova nella concretezza degli affetti familiari (da cui però è escluso) la sua ragione d'essere, quella che gli fa scivolare una goccia di sudore sulla fronte o gli fa brandire il martello con un nervosismo che tradisce una forma di incertezza, una tendenza a non lasciar esplodere fino in fondo la sua furia repressa.

Il risultato di questa forza espressiva che Refn governa con incredibile attenzione è quello di un film ossessivo eppure poroso, fondato sulla figura retorica dell'ossimoro, ma capace di mantenere una latente tensione per l'intera sua durata, e di permettere al citazionismo da sempre presente nell'opera dell'autore danese di esprimersi con più forza che in passato. Il tutto con un formidabile lavoro sui volti (straordinario nella sua “inattualità” quello di Carey Mulligan) e l'approdo ad una violenza parossistica, ma stavolta più stilizzata che reale, e che forse permette di chiudere i riferimenti interni al corpus d'opera del regista attraverso il parallelo con la più imprendibile delle sue pellicole, quel Bronson che a distanza di tempo – e pur con le riserve del caso – rimane l'autentico manifesto teorico della sua filmografia.


Drive
(id.)
Regia: Nicolas Winding Refn
Sceneggiatura: Hossein Amini (dal romanzo di James Sallis)
Origine: Usa, 2011
Durata: 95'



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