Il cinema di John Huston
La retrospettiva che il Torino Film Festival 2010 ha dedicato a John Huston, ha rappresentato un momento importante per celebrare una figura abbastanza dimenticata (basti vedere la penuria di suoi titoli in DVD) e che costituisce invece un elemento fondamentale nel passaggio dalla Hollywood classica a quella moderna. Non è casuale, infatti, che già all’annuncio della retrospettiva, i primi commenti fossero incentrati soprattutto sul rimarcare i punti deboli della filmografia dell’autore e i celebri compromessi artistico/produttivi che portarono a opere controverse come La Bibbia o Casinò Royale.
Invece, come spesso accade, c’è molto di più e va dato merito a Torino di aver in questo modo concluso un percorso che, iniziato sotto le direzioni Della Casa prima e Turigliatto-Vallan dopo, è riuscito a radiografare bene il sentiero battuto dal cinema americano attraverso la sua storia passata e quella più recente (il pensiero è naturalmente rivolto alle precedenti retrospettive su John Carpenter, George Romero, Walter Hill, Robert Aldrich fino al Nicholas Ray del 2009, ma non vanno dimenticati anche gli omaggi a Anthony Mann, Budd Boetticher e John Ford). Chi è stato spettatore a Torino negli ultimi dieci anni, insomma, ha potuto farsi un’idea molto allargata delle istanze che hanno mosso il cinema americano lungo la sua Storia.
John Huston, dunque, è una figura che in questo percorso si pone al centro, regista autenticamente di due epoche, capace di segnare tanto la Hollywood classica che quella degli anni Settanta e Ottanta. L’aspetto più interessante, però, sta nel notare come già i suoi film classici fossero in realtà moderni. Non soltanto per la forza dei temi, che spesso travalicavano quei compromessi commerciali tipici dello studio system, rivelando una visione al nero non comune per i prodotti di massa. Basti pensare alla splendida parabola di avidità che è Il tesoro della Sierra Madre, oppure a quella ossessiva del magnifico Moby Dick. Ma anche e soprattutto per ragioni puramente stilistiche e iconiche. Huston è stato infatti grande nell’utilizzo degli attori, visti sia come corpi simbolici, autentici segni filmici che con la loro presenza erano capaci di “comunicare” più delle storie stesse in cui erano coinvolti, sia come figure duttili, da plasmare a proprio piacimento. Pensiamo alla delicatezza di Audrey Hepburn, rivoltata nella problematicità della meticcia nel western Gli inesorabili; oppure all’Errol Flynn alcolizzato de Le radici del cielo, personaggio imbelle nel genere avventuroso che pure gli aveva dato fama. E così via via procedendo fino alla scoperta e all’utilizzo di talenti del cinema a venire, come John Hurt, Michael Caine, Sylvester Stallone.
Ma probabilmente il volto hustoniano per eccellenza resta quello di Humphrey Bogart, che il regista utilizza con una sapienza incredibile, usando spesso la sua iconicità in funzione contraria a quella narrativa. Ne è buon esempio il Sam Spade de Il mistero del falco, investigatore brillante come da tradizione della detective story, ma anche figura chiaroscurale, a suo agio fra gli intrighi della storia e decisamente poco incline al dispiacere per la morte del collega da cui si dipana la vicenda. Ma ancora basterà ricordare l’utilizzo dell’attore nel già citato Il tesoro della Sierra Madre, dove diventa il tramite per il pessimismo che il regista profonde rispetto alle possibilità dell’uomo di accettare un’ideale di condivisione. La storia del cinema e della società americana per Huston è fatta di individualismi, di personaggi che seguono regole proprie e che quasi sempre sono disallineati rispetto al loro mondo, al punto che spesso i loro racconti sono percorsi di vita lungo la strada che li porterà a comprendere il proprio disagio e la propria congenita infelicità (si pensi al Toulouse Lautrec di Moulin Rouge).
Ne consegue che Huston è stato anche un teorico, una persona consapevole delle capacità insite nella narrazione per immagini e infatti qui risiede la modernità del suo cinema. Anche nelle opere del periodo classico, infatti, emerge un gusto documentaristico per l’immagine, che si accompagna a una forte tensione verso il primo piano, con personaggi che sono a un passo dal rivolgersi direttamente alla macchina da presa, come infatti avverrà nei capolavori della maturità (pensiamo all’ineguagliabile L’uomo dai sette capestri). Tutto questo senza considerare il lavoro di composizione dell’immagine, che tiene conto dei trascorsi pittorici dell’autore.
Ma tutto ciò non deve far pensare a un regista serioso o proteso in pesantezze didascaliche: al contrario, la grandezza di Huston sta nella leggerezza ironica con cui spesso lascia passare i suoi temi, nella porosità di un cinema che sa piegarsi a istanze differenti e spesso riesce a lasciar trapelare l’ironia anche in contesti drammatici. Una figura anzi affascinata e curiosa delle possibilità offerte dai contesti narrativi, tanto che a volte le storie dietro le lavorazioni dei film sono non meno grandiose di quelle che hanno portato alla pellicola finale. E a volte possono pure risultare spiazzanti nella loro contraddizione: pensiamo all’animalismo del già citato Le radici del cielo, che pare Huston abbia voluto portare avanti per poter girare in Africa e… cacciare un elefante! L’esatto opposto di ciò che vuole il suo protagonista. Seguire regole individuali, insomma, per lui non era soltanto un tema cinematografico.
Nessun commento:
Posta un commento